mercoledì 30 giugno 2010

La seconda volta

La prima volta che ho incontrato Alessandra in realtà non era la prima volta.
Era già successo molti anni prima quando lei era la ragazza di un mio compagno di università e la sera – tutte le sere – uscivamo in comitive lunghe molte auto, a giro per le strade della notte, spesso col solo intento di aspettare i primi cornetti caldi dell’alba.
L’ho rivista un mese fa, quando ho accompagnato mia figlia alla preiscrizione al ginnasio anche se lo so – “per favore papà non mettermi in imbarazzo che qui nessuno sa cos’è un ginnasio” – che adesso si chiama scuola secondaria di secondo grado e, nello specifico, liceo classico europeo.
Da qualche parte dentro di me non potevo fare a meno di pensare che se i ragazzi adesso sono quasi tutti grandifratelli o naufraghifamosi è anche perché nessuno ha mai spiegato loro cos’era un ginnasio. Ma la mia era una riflessione nata già vecchia, ne ero consapevole.
La scuola aveva cambiato nome e strategie comunicative ma l’edificio sembrava sempre lo stesso. Non ci mettevo piede da decenni e nel farlo mi scoprivo emozionato; sicuramente per l'ennesima conferma di una vita in qualche modo già trascorsa ma soprattutto perché quel terremoto di mia figlia stava diventando grande ed io, incapace di esternare appieno i sentimenti, non ero certo sapesse quanto ero fiero di lei.
Nell’androne c’era una notevole attività e si era formata quella che avrebbe dovuto essere una fila in attesa ma – magia del popolo italico – assomigliava più ad un assembramento non autorizzato. Così, casualmente, mentre aspettavamo il nostro turno vicino a quella che un tempo era la porta del famigerato professor De Stefano, ho scoperto che Alessandra è il preside, pardon il dirigente scolastico del liceo.
La ricordavo come una ragazza carina - tanti capelli mossi su un viso sempre allegro - e ritrovavo una donna dal piglio autorevole che riusciva a condurre due distinte conversazioni telefoniche simultaneamente, mentre firmava non so cosa e supervisionava l’accoglienza di genitori e figli.
Mi si presentava una donna decisamente affascinante cui la vita forse aveva lasciato qualche ruga di troppo intorno agli occhi.
Quando è arrivato il nostro turno l’impiegata ha ripetuto ad alta voce nome e cognome di mia figlia e, dopo che qualcuno le ha portato una cartella sospesa di colore giallo, ha sbrigato la pratica in pochi minuti, raccogliendo alcune informazioni e consegnandole un elenco di documenti da presentare la volta successiva. Assegnata, sia pure provvisoriamente, al corso C.
Mentre andavamo via Alessandra è apparsa sulla soglia dell’ufficio per un benvenuto formale che poi si è trasformato in un saluto veloce – “Ma noi ci conosciamo, ciao sei tu? Come stai? Quanto tempo è passato…” - anche perché lei era evidentemente impegnata e comunque pareva poco propensa a ricordare quel passato goliardico che solo in piccola parte avevamo condiviso.

La prima volta che Alessandra mi ha telefonato non ha chiamato me e non l’ha neppure fatto lei personalmente.
Non so neppure perché continuo a pensare che quella sia stata la nostra prima telefonata.
In ogni caso è stato l’inizio di un qualcosa che prima non c’era ma da quel momento è come se ci fosse sempre stato.
Il cellulare di mia figlia squillò qualche giorno dopo, mentre io mi apprestavo a parcheggiare l’auto e lei si preparava psicologicamente ad affrontare al meglio una giornata di shopping compensativo, diceva lei, compulsivo precisavo io.
In realtà il piccolo Samsung, rigorosamente touch screen, non squillò affatto perché prese il via un cacofonico brano musicale – “ma papà, sono i Tokio!” – che ovviamente non potevo conoscere. Le suonerie di mia figlia, tra l’altro, cambiano ogni settimana e probabilmente anche a seconda del chiamante.
E' la scuola, vogliono te”, disse porgendomi il telefono pieno di sonaglini colorati.
Le passo la dottoressa… Pronto, non volevo disturbarti…”. La voce di Alessandra apparve improvvisamente nella mia testa ed io provai subito ad immaginarla, rivedendola con lo stesso tailleur nero – gonna longuette a linea dritta, camicia in seta bianca, giacca con revers a bottone unico, sandalo alto con plateau – che indossava a scuola.
Dalla segreteria reclamavano una mia firma che però, ne ero certo, nessuno si era ricordato di chiedermi. Cosicché aveva pensato di cercarmi e “…magari ti offro anche un caffè”.
Con la consueta spigliatezza che ha sempre contraddistinto il mio rapportarmi all’altro sesso riuscii ad articolare un mormorio di sorpresa insieme a qualche “certo, senz’altro, quando vuoi” che amplificarono il mio disorientamento e suscitarono i commenti sarcastici di mia figlia.
Ne fui abbastanza meravigliato e non seppi relegare l’episodio tra le cose imponderabili dell’esistenza; la qual cosa ebbe come immediata conseguenza la totale perdita di controllo sull’uso della carta di credito da parte della mia adorata ginnasiale.
Mi venne in mente che non avevo mai saputo perché quel mio amico ed Alessandra si fossero lasciati; semplicemente, almeno così mi pareva di ricordare, ad un certo punto lei era sparita dai nostri giri ed il gruppo si era rapidamente ricompattato su se stesso.
Il caffè che ne seguì fu lungo per entrambi. Lungo un pomeriggio intero oppure lungo quanto un pezzo di vita; almeno quella versione restaurata che si può aver voglia di ricordare e raccontare ad una quasi sconosciuta.
Senza alcun cerimonioso imbarazzo – più per merito suo in verità – riuscimmo a superare tutti i «ti ricordi?» per poi finalmente scherzare con una lunga serie di «perché tu invece non sai che» delle nostre reciproche vite. Insomma tutte quelle piccole cose – conoscenze comuni, situazioni paradossali, ricordi dimenticati - che potevano armonizzare quell’essersi ritrovati.
Tutto avvenne con una spontaneità tale da far dimenticare a me un appuntamento di lavoro e da farla sorridere rilassata persino quando raccontava di un marito ormai molto ex e decisamente poco empatico.
Per tutto il tempo senza mai smettere di guardarla, molto divertito dalla straniante familiarità della situazione, mi accorsi di un pensiero un attimo dopo averlo già formulato e fu inevitabilmente troppo tardi.
Era bella. Bella e radiosa quando rideva delle sue stesse battute o delle comuni coincidenze di pensieri.

La prima volta che io e Alessandra abbiamo fatto l’amore sembrava essere la seconda volta. Non saprei spiegarmi meglio di così.
Mi invitò da lei un pomeriggio di primavera inoltrata. La casa si trovava in un sobborgo pieno di ville mono familiari, alberi di alto fusto e biciclette nei giardini, con l’odore dell’erba tagliata che riempiva l’aria.
Mentre ero intento a domandarmi per quale motivo mi ostinassi a vivere in città sull’uscio comparve lei con uno dei suoi luminosi e contagiosi sorrisi.
Tre passi e dieci secondi dopo ci abbracciammo come se avessimo atteso da sempre quel momento e la sentii sciogliersi tra le mie braccia. Ed io, stupito di me stesso, mi sciolsi con lei.
Con una naturalezza cui ero poco abituato Alessandra mi mostrò la sua casa - in cui anche il disordine sembrava organizzato - e piano, con studiata lentezza, mi mostrò se stessa e il suo mondo, il suo corpo e la sua anima.
Evidentemente le parole con cui ci eravamo ritrovati non erano bastate perché entrambi, l’uno tra le braccia dell’altro, le mani intrecciate ed i respiri vicini, non riuscivamo a smettere di raccontarci.
Lei che si confidava molto più di quanto avesse fatto con sua sorella negli ultimi due anni – così diceva - ed io che parlavo senza alcuna remora di ampie porzioni della mia complicatissima vita; per poi scoprire, attraverso i suoi occhi, che forse tanto complicata non era.
Fino a quel silenzio naturale che sa unire piuttosto che dividere.
Così le voci lasciarono spazio ai baci e dopo fu solo un rincorrersi di corpi e mani e bocche, io con una frenesia dimenticata e lei, diceva, con una arrendevolezza sconosciuta.
Anche in quella camera dalle pareti di un caldo amaranto riuscimmo a trovarci senza alcun disagio e, rivelandoci l’uno all’altro, finimmo con lo scoprire un po’ di noi stessi.
Ed io, più di ogni altra cosa, liberai d'un tratto la mia voglia di vivere mentre lei lasciò correre la sua che con gli anni non sembrava – non era – diminuita ma anzi amplificata.
La seconda volta che ho fatto l’amore con Alessandra è stata come la fine di un lungo viaggio.
Come entrare in un’abitazione sconosciuta e sentire di essere finalmente giunto a casa.

(eri solo da incontrare ma tu ci sei sempre stata...)