sabato 28 febbraio 2009

“Operazione Valchiria" di Bryan Singer

La Storia non si fa con i se e con i ma, questo è ovvio, però nel buio della platea capita di chiedersi cosa sarebbe cambiato se il 20 luglio 1944 il folle Führer und Reichskanzler tedesco fosse morto.
Probabilmente il corso degli eventi sarebbe stato modificato di poco visto che - non va taciuto questo particolare – l’azione del colonnello von Stauffenberg e dei suoi sodali era quanto mai tardiva (lo sbarco in Normandia era avvenuto poco più di un mese prima) e non immune da un’ipocrita determinazione di salvaguardare se stessi (intesi anche come centri di potere politico-economico) insieme e prima della “santa Germania”.
La Storia come noi la conosciamo, piuttosto, sarebbe stata certamente diversa se Maurice Bavaud, anonimo studente svizzero, fosse riuscito nel suo intento omicida già nel novembre 1938. Ma questo sarebbe tutto un altro film.
Il regista de “I soliti sospetti” sa quel che deve essere fatto e normalmente sa come farlo; questa volta però l’opera gli riesce a metà, per così dire, nonostante un’imponente produzione che si fa notare dalle locations ai costumi, passando per il commento musicale.
Forse a causa di una sceneggiatura troppo descrittiva nella prima parte, forse per via di un attore protagonista che non convince nei panni di personaggio storico, l’intero lavoro soffre di un appiattimento complessivo che neppure la regia o i bravi comprimari britannici riescono ad evitare.
I troppi dialoghi preparatori finiscono con l’appesantire la trama e, quel che è peggio, nulla aggiungono al pathos delle azioni conclusive quando il dramma sembra cogliersi soltanto nelle stanze dell’ufficio trasmissioni, dove l’incredulità e l’incertezza fanno sì che vengano contemporaneamente inoltrati ordini veri e false disposizioni.
Insomma non un brutto film ma certamente un grande film mancato.
La scena più bella? All’eroico colonnello viene ingiunto di salutare appropriatamente il capo supremo ed egli, voltandosi verso il suo interlocutore, urla il saluto nazista alzando il braccio destro con la mano mozza!
In questo fermo immagine, con un ridicolo gesto rituale reso involontariamente grottesco dalla menomazione fisica, sembra finalmente intravedersi la disfatta del Reich ed il regista è abile a cogliere questa consapevolezza negli occhi del vile Tom Wilkinson, alias generale Fromm.
Neppure il cinema, a quanto pare, si fa con i se e con i ma.
La qual cosa porta a concludere che se la macchina hollywoodiana fosse meno attaccata ai suoi tanti cliché – uno per tutti, l’obbligo di un lieto fine che quando non può esserci, come in questo caso, ripiega sulla catarsi del protagonista – potrebbe benissimo realizzare un film storico senza trasformarlo in un’avventura come tante.

mercoledì 4 febbraio 2009

Senza te

Il tempo scorre
troppo lentamente
perchè smettere d'amarti
diventi un'abitudine indolore.
Il tempo non ha senso
se lo fermi e gridi amore.

sabato 31 gennaio 2009

“La separazione del maschio” di Francesco Piccolo

È un brutto libro… no, non è vero.
È un buon libro con un brutto protagonista...
Ma neanche questo in fondo è vero.
Non riesco neppure a dire che sia un libro complicato perché, a parte alcune pesanti pagine centrali, è ben scritto ed altrettanto bene “montato”, come fosse un film, con scene rapide nel loro alternarsi e dirette nel raccontare.
Proprio come il protagonista – montatore cinematografico di professione e accorto regista della propria vita – riesce a fare con le molte trame della sua esistenza.
Matrimonio con Teresa, stacco. Sesso con Francesca, dissolvenza. Accompagnare a scuola Beatrice, campo lungo. E poi di nuovo, scopare con Valeria, lavorare ad un progetto, pensare ad un’altra scopata, in una ciclica ed ordinata sovrapposizione di volti, corpi e situazioni.
Mentre in sottofondo pare di sentire l’eco del biasimo femminile la lettura offre invece l’occasione per un’analisi più approfondita del generico e superficiale “tutti uguali gli uomini”. In questo esame, però, non c’è spazio per gli assolutismi: niente è soltanto bianco e nulla è mai davvero nero.
Perché, come pure capita nel mondo reale, si dovrà riconoscere che un compagno infedele riesce ad essere un marito affettuoso; un uomo costantemente preso dai propri desideri sa essere anche un padre premuroso o un amico sincero.
Si comprenderà che il maschio in questione, a suo modo, ama davvero tutte le donne della sua vita (persino quelle con cui non scopa o non ha desiderato di farlo) e per tutte loro davvero si preoccupa. Si scoprirà, infine, che qualunque castello (di carte) può avere fondamenta solide eppure crollare all’improvviso, non per fatto proprio ma per l’errore – il tradimento – altrui.
Ad analisi terminata bisognerà convivere con il malessere che consegue alla scoperta di così tante “quasi verità” laddove – azzardando una superflua moralizzazione - ogni cosa è al suo posto eppure niente è davvero in ordine.
Mi sono chiesto perché in qualche modo è stato difficile leggere fino all’ultima pagina di questo (poco) scandaloso romanzo.
Domanda retorica.
Il protagonista vive come molti non osano, pensa ciò che non dovrebbe e dice cose che non andrebbero neppure pensate! Vive una vita giusta nel modo, forse, sbagliato e la porta avanti – riuscendo a tenere insieme i troppi tasselli che la compongono – nonostante gli sbagli anzi, in qualche caso, grazie ad essi.
Il protagonista, insomma, è quell’immagine che ciascuno potrebbe vedere riflessa nello specchio al mattino, quando il vapore della doccia si alza e sul vetro restano i segni delle tante, troppe, ditate della vita.
E quello specchio a tutti piacerebbe vederlo sempre pulito.

mercoledì 14 gennaio 2009

Duecento gradini - cinque

Non è che resti molto da aggiungere dopo il tuo epitaffio.
Eppure ci provo lo stesso, con una caparbietà che – duecento gradini fa – non avevo o non sapevo di avere.
«La verità è che abbiamo perso tempo e il tempo alla fine si è vendicato.»
Questa, forse, non è la sola realtà che saremo costretti a lasciarci alle spalle ma almeno è qualcosa su cui ti osservo riflettere un attimo prima di parlare.
«La verità è che ti sei lasciata governare dall’orgoglio con la stessa stupidità con cui un uomo si fa comandare dal suo uccello.»
E tu conosci bene quest’argomento vero? Per la prima volta stasera ho la sensazione che sia stato tu a dire la cosa sbagliata, quanto meno perché mi hai rammentato ciò che vorresti io dimenticassi.
«Non ricordavo quanto fossi…» Sto per aggiungere presuntuoso ma, quasi avessi letto i miei pensieri, mi interrompi per un po’ di tardiva autocritica.
«Per le decisioni che ho preso sono colpevole io e non l’ho mai negato; per quelle che non ho preso la responsabilità invece è tua. Anche se non vorrai ammetterlo mai!»
«…stronzo», quel presuntuoso mi sembrava poco ormai.
«Ed io quanto fossi infida e… bella.»
Invece stronzo rende abbastanza bene l’idea che in questo momento ho di te; anche se non riesco mai a dirtelo con sufficiente cattiveria.
Perché - a dispetto della tua saccente intelligenza - spesso hai fatto la cosa sbagliata senza volerti preoccupare delle conseguenze; perché sai di essere una persona sensibile e a volte credi che questo ti dia il diritto di giudicare la sensibilità altrui.
Stronzo perché riesci a trovare le parole giuste anche nel momento sbagliato, persino per confessare le tue colpe o rendere più lieve l’aria intorno a noi.
Come hai appena fatto, per esempio, mentre ti appoggiavi sul piano alle tue spalle e finalmente rilassavi quel solco che hai sul viso.
Non so più che fare con te. Questo è il mio primo pensiero e solo a me stessa posso confessarlo.
Davvero non so cosa pensare e in quest’incertezza sono consapevole che provocarti – come sto facendo ora – è quanto di più divertente e pericoloso possa fare.
«Hai parlato sempre al passato, non sei più innamorato di me?»
Di nuovo quell’imbarazzo perplesso che sembra paralizzarti e ti rende più simpatico di quanto tu non possa credere.
«Anna…» è l’unico suono che emetti perché se parli ancora potresti ridere e non lo vuoi.
«…vaffanculo. Si, hai ragione, me lo sono cercato». Il resto, come vedi, me lo dico da sola perché anch’io, al tuo posto, me lo ripeterei.
Prima mi guardavi il seno ed ora che mi avvicino a te vorrei sentirmeli addosso quegli occhi, come fossero dita intorno a un’asola che deve essere liberata; tu invece cerchi ancora gli occhi miei per rintracciare la linea di un orizzonte che non c’è.
Hai le mani fredde ed io che te le afferro non so se mi gira abbastanza sangue nelle vene per scaldarti ancora.
Se potessi, per stanchezza più che per convinzione, cancellerei tutto quello che c’è stato prima di quest’attimo preciso, solo per assaporare la sensazione di sentirmi più leggera e chiederti di abbracciarmi.
Per quanto sai essere sfacciato e passionale nell’intimità altre volte sembri inutilmente cerimonioso; adesso, per esempio, mi accarezzi la pelle come se il mio corpo ti fosse sconosciuto e scambi i fremiti che pure mi procuri per una debolezza che invece non ho più.
Sento il rumore degli ingranaggi nella tua testa anche se non so quale altro pensiero stai fabbricando. Vorrei stessi zitto ma so che non lo farai.
«Che cosa provi per me?»
Non ho intenzione di risponderti, Luca, non in questa vita, non questa sera, non ora almeno. Una risposta non l’avrai perché non so neppure se una risposta c’è.
Mentre premo la mia bocca sulla tua mi sembra di essere arrivata; non so dove sono ma è come se un viaggio fosse terminato. Riconosco a me stessa che sei il nord sulla mia bussola ed ora non m’importa sapere se l’ago gira a vuoto insieme alla mia vita.
Dischiudo le labbra per invitarti a entrare e vengo a cercarti, accarezzando la tua lingua con la mia.
In un bacio tutte le parole cui ti aggrappi mi appaiono uno spreco.
Ho fame, ho sete ed il sapore del tuo alito non mi basta mai; trattengo le tue labbra con i denti come fosse una minaccia, come l’annuncio di quello che sarà.
Il tuo ennesimo interrogativo, finalmente, si infrange qui perché avverto che ti sciogli in un abbraccio un po’ più forte ed il tuo corpo ora sta cercando il mio.
Per un attimo non sento più il vestito tra le gambe e tra un minuto vorrò davvero non sentirlo più. Mi metti addosso sempre la stessa frenesia ed ancora mi stupisco sia così.
Mani nelle mani, ora guido le tue dita su di me perché non ho più tempo da aspettare e voglio amarti come se non ti avessi amato mai. Amarti come tu vuoi e come, probabilmente, non ho saputo fare mai.
Non so quello che pensi e non m’importa se non sai scorgere nel fondo dei miei occhi quella consapevolezza che ora c'è.
Io non potrò mai essere tua più di quanto tu stesso voglia prendere.