Duecento gradini - due
Mi auguro che tu dica presto qualcosa – qualsiasi cosa – pur di interrompere l’eternità di questo imbarazzante minuto.
Invece non apri bocca e continui a guardarmi perplesso e diffidente.
Però da questa impasse dobbiamo uscirne in qualche modo ed allora mi carico di un coraggio che non ho.
«Ti ricordi di me?»
La frase che mi hai scritto ieri è la prima cosa che mi è venuta in mente ma, lo giuro, volevo fare la spiritosa solo per alleggerire un po’ la tensione. Permaloso come sei chissà cosa starai pensando adesso.
«Si… abbastanza». Non è un granché come risposta ma almeno una cosa l’hai detta. Sappiamo entrambi che puoi fare di meglio ma credo tocchi ancora a me rimboccarmi metaforiche maniche.
«Ho pensato su quel foglio non ci fosse altro spazio da riempire e preferisco non cominciarne un altro». Più di questo ora non saprei cosa dirti e, francamente, non so cos’altro potresti domandarmi.
«Già… Vuoi entrare?» Il tuo entusiasmo è contagioso come un virus - nel senso letterale dell’espressione - e vorrei dirtelo anche se la cosa non è propriamente un complimento.
«Pensavo non me l’avresti chiesto».
Entro in casa passandoti volutamente troppo vicino nell’inutile tentativo di provocare una reazione che non c’è e che peraltro sapevo non ci sarebbe stata. Detesto quando mi sento in difficoltà e finisco col comportarmi stupidamente come un uomo.
Nel chiarore soffuso della tua luce preferita riconosco le stampe sulle pareti del corridoio ed il cd che gira nello stereo; riconosco gli oggetti, gli odori e perfino i ricordi che ho lasciato in questa casa.
Mi ritrovo di nuovo nella tua cucina e, mentre sento il volume della musica che si abbassa, avverto i tuoi passi alle mie spalle. Soprattutto percepisco una straniante sensazione di familiarità in un posto che credevo non essere più mio.
«Ancora Ikea?» e sto indicando un anonimo orologio alla parete.
La tua risposta è solo un cenno ed io comincio a sentirmi davvero a disagio. Intanto guardo la bottiglia che è sul tavolo e ne apprezzo, chissà poi perché, i riflessi di colore che si allungano sul piano in legno chiaro.
«Me ne offri un goccio?»
Mentre apri la credenza mi volti le spalle e sembra che tu voglia impiegarci il maggior tempo possibile, come se il non guardarmi bastasse a farmi scomparire.
Mi piace la destrezza con cui maneggi il calice e lo riempi. Mi piace meno lo sguardo che segue il mio bere perché mi fai sentire come il personaggio di un incubo di Kubrick.
Vorrei andare via proprio in questo momento e mentre lo sto pensando tu decidi di parlare.
«Che vuoi Anna?» mi chiedi e c'è quasi cattiveria nella tua voce.
Se mi avessi schiaffeggiato forse avresti fatto meno rumore, forse avrei potuto anche far tacere quel rancore che mi monta dentro per tutto il male che ti ho fatto e per quello che hai saputo ricambiarmi.
La domanda è disarmante nella sua apparente banalità ed io non so davvero cosa dire. Non era così che doveva andare, non avevo pensato a questo salendo le tue dannate scale.
Il tuo vino ha il sapore dell’estate e della frutta rossa ma non riesce a portar via quel sentore amaro dalla bocca ed è comunque una pausa troppo breve tra pensieri troppo densi.
«Volevo vederti… parlare un po’... di noi». La consapevolezza di dire cose sbagliate sta diventando una costante della serata; ma ormai l’ho detto.
«Noi è un pronome che tu stessa hai cancellato dal vocabolario!»
Fai una pausa che dovrebbe essere ad effetto ma, quasi vorrei dirtelo, non lo è affatto. Ti odio quando fai così, ti detesto con tutta me stessa!
Quando parlarti diventa estenuante come sostenere un colloquio di ammissione, quando sottolinei in rosso o in blu le frasi fuori posto secondo la tua personale convenienza, quando pretendi di correggere persino la sintassi dei miei pensieri.
Tante della nostre discussioni sono cominciate in questo modo e, per quanto io abbia sempre saputo che la tua è solo una corazza difensiva, non credo di poterne sopportare il peso ancora a lungo.
Ma sono davvero curiosa di sapere ciò che pensi e posso solo continuare a chiedermelo oppure domandarlo a te.
«Perché hai scritto quelle cose? Le pensi davvero? Sul serio credi possa scordarmi di te?»
Nel frattempo sento i tuoi occhi sul mio corpo come fossero dita che mi scorrono addosso ed avverto un brivido dimenticato. Sarà per questo che mentre mi rispondi la tua voce suona meno dura, anche solo per un attimo.
«Non lo so perché l’ho fatto e, se è per questo, non so neppure perché ho risposto al tuo biglietto… Ma quello che penso io non ha importanza, non l’ha mai avuta».
Invece non apri bocca e continui a guardarmi perplesso e diffidente.
Però da questa impasse dobbiamo uscirne in qualche modo ed allora mi carico di un coraggio che non ho.
«Ti ricordi di me?»
La frase che mi hai scritto ieri è la prima cosa che mi è venuta in mente ma, lo giuro, volevo fare la spiritosa solo per alleggerire un po’ la tensione. Permaloso come sei chissà cosa starai pensando adesso.
«Si… abbastanza». Non è un granché come risposta ma almeno una cosa l’hai detta. Sappiamo entrambi che puoi fare di meglio ma credo tocchi ancora a me rimboccarmi metaforiche maniche.
«Ho pensato su quel foglio non ci fosse altro spazio da riempire e preferisco non cominciarne un altro». Più di questo ora non saprei cosa dirti e, francamente, non so cos’altro potresti domandarmi.
«Già… Vuoi entrare?» Il tuo entusiasmo è contagioso come un virus - nel senso letterale dell’espressione - e vorrei dirtelo anche se la cosa non è propriamente un complimento.
«Pensavo non me l’avresti chiesto».
Entro in casa passandoti volutamente troppo vicino nell’inutile tentativo di provocare una reazione che non c’è e che peraltro sapevo non ci sarebbe stata. Detesto quando mi sento in difficoltà e finisco col comportarmi stupidamente come un uomo.
Nel chiarore soffuso della tua luce preferita riconosco le stampe sulle pareti del corridoio ed il cd che gira nello stereo; riconosco gli oggetti, gli odori e perfino i ricordi che ho lasciato in questa casa.
Mi ritrovo di nuovo nella tua cucina e, mentre sento il volume della musica che si abbassa, avverto i tuoi passi alle mie spalle. Soprattutto percepisco una straniante sensazione di familiarità in un posto che credevo non essere più mio.
«Ancora Ikea?» e sto indicando un anonimo orologio alla parete.
La tua risposta è solo un cenno ed io comincio a sentirmi davvero a disagio. Intanto guardo la bottiglia che è sul tavolo e ne apprezzo, chissà poi perché, i riflessi di colore che si allungano sul piano in legno chiaro.
«Me ne offri un goccio?»
Mentre apri la credenza mi volti le spalle e sembra che tu voglia impiegarci il maggior tempo possibile, come se il non guardarmi bastasse a farmi scomparire.
Mi piace la destrezza con cui maneggi il calice e lo riempi. Mi piace meno lo sguardo che segue il mio bere perché mi fai sentire come il personaggio di un incubo di Kubrick.
Vorrei andare via proprio in questo momento e mentre lo sto pensando tu decidi di parlare.
«Che vuoi Anna?» mi chiedi e c'è quasi cattiveria nella tua voce.
Se mi avessi schiaffeggiato forse avresti fatto meno rumore, forse avrei potuto anche far tacere quel rancore che mi monta dentro per tutto il male che ti ho fatto e per quello che hai saputo ricambiarmi.
La domanda è disarmante nella sua apparente banalità ed io non so davvero cosa dire. Non era così che doveva andare, non avevo pensato a questo salendo le tue dannate scale.
Il tuo vino ha il sapore dell’estate e della frutta rossa ma non riesce a portar via quel sentore amaro dalla bocca ed è comunque una pausa troppo breve tra pensieri troppo densi.
«Volevo vederti… parlare un po’... di noi». La consapevolezza di dire cose sbagliate sta diventando una costante della serata; ma ormai l’ho detto.
«Noi è un pronome che tu stessa hai cancellato dal vocabolario!»
Fai una pausa che dovrebbe essere ad effetto ma, quasi vorrei dirtelo, non lo è affatto. Ti odio quando fai così, ti detesto con tutta me stessa!
Quando parlarti diventa estenuante come sostenere un colloquio di ammissione, quando sottolinei in rosso o in blu le frasi fuori posto secondo la tua personale convenienza, quando pretendi di correggere persino la sintassi dei miei pensieri.
Tante della nostre discussioni sono cominciate in questo modo e, per quanto io abbia sempre saputo che la tua è solo una corazza difensiva, non credo di poterne sopportare il peso ancora a lungo.
Ma sono davvero curiosa di sapere ciò che pensi e posso solo continuare a chiedermelo oppure domandarlo a te.
«Perché hai scritto quelle cose? Le pensi davvero? Sul serio credi possa scordarmi di te?»
Nel frattempo sento i tuoi occhi sul mio corpo come fossero dita che mi scorrono addosso ed avverto un brivido dimenticato. Sarà per questo che mentre mi rispondi la tua voce suona meno dura, anche solo per un attimo.
«Non lo so perché l’ho fatto e, se è per questo, non so neppure perché ho risposto al tuo biglietto… Ma quello che penso io non ha importanza, non l’ha mai avuta».
[continua... forse]
era ora ;-)
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