Ieri sono riuscito a sopravvivermi.
Lo ripeto per quelli tra voi che sono arrivati in ritardo, ho provato a morire ma non l’ho saputo fare.
Non è che possa descrivere molto di quanto è accaduto, comunque non in maniera precisa, almeno da un certo momento in poi. Tutto si è svolto in modo meccanico e confuso al tempo stesso.
Ero io ad agire ma - sto provando a renderlo comprensibile anche a me stesso - non ero chi decideva le mie azioni; per esempio mentre cercavo in alcune bottiglie il coraggio che sapevo di non avere.
Ricordo di essermi seduto in terra a scrivere qualcosa su un quaderno dalla copertina nera (che ora non so più dov'è) ed ogni tanto tiravo un lungo sorso per non sentire più il dolore. Dopo non rammento altro, se non sprazzi di coscienza tra il pianto, i conati di vomito ed il cellulare che squillava impazzito accanto a me sul pavimento.
Nel frattempo il circo era già cominciato ed io, che ne sarei stata l’attrazione principale, neppure lo sapevo.
Quando ho riaperto gli occhi qualcuno mi stava prendendo a schiaffi ed intorno c’erano voci estranee, tute colorate, rumori vari, uniformi e confusione; occhi sconosciuti mi stavano fissando dall’alto con disapprovazione – perlomeno così mi pareva – e mani svelte cercavano di fare il loro lavoro su di me.
Confesso che il primo pensiero - il più stronzo fra tutti - è stato quello di un altro fallimento, un altro errore da scontare in qualche modo. Col trascorrere dei minuti, nonostante i movimenti goffi ed i pensieri lenti, la mia temporanea sospensione dalla realtà lasciava spazio ad un imbarazzo inesprimibile a parole.
Mentre mi facevano sedere e varie domande restavano senza una risposta mi scoprivo nuove lacrime per il disagio, lo scandalo e la mia meschinità.
Avrei voluto che tutti se ne andassero e invece tutti, lì a fissarmi, probabilmente avrebbero voluto che scomparissi io.
E poi ancora il viaggio fino all’ospedale, lo stomaco sottosopra, il ritorno a casa in un silenzio caritativo ed irreale.
Questa mattina le braccia non mi fanno troppo male e comunque ho un’emicrania così forte che riesco a sentire solo il suono che mi rimbomba in testa.
Accanto a me, ancora con gli occhi chiusi, c’è lei.
Lei che, intuendo non so cosa e non so come, mi ha salvato da me stesso ed avrebbe avuto tutti i motivi per non farlo.
Fa un certo effetto leggere la scheda del pronto soccorso e devo guardare più volte le generalità per convincermi di essere davvero io. Quella diagnosi da cronaca nera - tentato suicidio con lesioni ad entrambi i polsi – è stata pietosamente cancellata dal medico di guardia e trasformata in qualcosa che riguarda l’ebbrezza alcolica ed uno stato d’ansia.
Le ferite fuori difficilmente avrebbero potuto uccidermi ma quelle che mi porto dentro – ed anche quelle inespresse che ora vedo nei suoi occhi svegli – invece non scompariranno mai; le ricorderemo, come quei dolori che si riacutizzano quando cambia il tempo, e per sempre io dovrò portarne il peso.
Volete sapere cosa rimane davvero alla fine di tutto questo grande casino? Soltanto un mesto senso di vergogna.
Mi vergogno per ciò che io stesso ho provocato e per le conseguenze che probabilmente ci saranno. Ma non si tratta solo di questo.
Soprattutto mi vergogno pensando a tutti coloro che vorrebbero vivere ed invece un male se li porta via, a tutti quelli che ho perso e neppure si sono accorti della fine, ai vecchi che il tempo li consuma lenti e a quei bambini cui la vita non fa regali neppure alla partenza.
Mi vergogno perché quel nero profondo, quando c’è, non dovrebbe comunque essere motivo per gettare la spugna senza tentare ancora un altro colpo contro i guai dell'esistenza.
Mi vergogno perchè qualcuno, nonostante tutto, mi vuole bene e lo sapevo; se ciò non mi è bastato il torto è solo mio.
La conclusione, se proprio deve essercene una, in fondo è tutta qui.
Io se mi guardo dentro vedo il mio cuore nero
Poi forse svanirò e non dovrò più guardare la realtà
Come si fa ad affrontare le cose se tutto il mondo è nero?
(da “Paint It Black”, The Rolling Stones)