venerdì 15 ottobre 2010

Colore nero abisso - tre

Ieri sono riuscito a sopravvivermi.

Lo ripeto per quelli tra voi che sono arrivati in ritardo, ho provato a morire ma non l’ho saputo fare.
Non è che possa descrivere molto di quanto è accaduto, comunque non in maniera precisa, almeno da un certo momento in poi. Tutto si è svolto in modo meccanico e confuso al tempo stesso.
Ero io ad agire ma - sto provando a renderlo comprensibile anche a me stesso - non ero chi decideva le mie azioni; per esempio mentre cercavo in alcune bottiglie il coraggio che sapevo di non avere.
Ricordo di essermi seduto in terra a scrivere qualcosa su un quaderno dalla copertina nera (che ora non so più dov'è) ed ogni tanto tiravo un lungo sorso per non sentire più il dolore. Dopo non rammento altro, se non sprazzi di coscienza tra il pianto, i conati di vomito ed il cellulare che squillava impazzito accanto a me sul pavimento.
Nel frattempo il circo era già cominciato ed io, che ne sarei stata l’attrazione principale, neppure lo sapevo.
Quando ho riaperto gli occhi qualcuno mi stava prendendo a schiaffi ed intorno c’erano voci estranee, tute colorate, rumori vari, uniformi e confusione; occhi sconosciuti mi stavano fissando dall’alto con disapprovazione – perlomeno così mi pareva – e mani svelte cercavano di fare il loro lavoro su di me.
Confesso che il primo pensiero - il più stronzo fra tutti - è stato quello di un altro fallimento, un altro errore da scontare in qualche modo. Col trascorrere dei minuti, nonostante i movimenti goffi ed i pensieri lenti, la mia temporanea sospensione dalla realtà lasciava spazio ad un imbarazzo inesprimibile a parole.
Mentre mi facevano sedere e varie domande restavano senza una risposta mi scoprivo nuove lacrime per il disagio, lo scandalo e la mia meschinità.
Avrei voluto che tutti se ne andassero e invece tutti, lì a fissarmi, probabilmente avrebbero voluto che scomparissi io.
E poi ancora il viaggio fino all’ospedale, lo stomaco sottosopra, il ritorno a casa in un silenzio caritativo ed irreale.
Questa mattina le braccia non mi fanno troppo male e comunque ho un’emicrania così forte che riesco a sentire solo il suono che mi rimbomba in testa.
Accanto a me, ancora con gli occhi chiusi, c’è lei.
Lei che, intuendo non so cosa e non so come, mi ha salvato da me stesso ed avrebbe avuto tutti i motivi per non farlo.
Fa un certo effetto leggere la scheda del pronto soccorso e devo guardare più volte le generalità per convincermi di essere davvero io. Quella diagnosi da cronaca nera - tentato suicidio con lesioni ad entrambi i polsi – è stata pietosamente cancellata dal medico di guardia e trasformata in qualcosa che riguarda l’ebbrezza alcolica ed uno stato d’ansia.
Le ferite fuori difficilmente avrebbero potuto uccidermi ma quelle che mi porto dentro – ed anche quelle inespresse che ora vedo nei suoi occhi svegli – invece non scompariranno mai; le ricorderemo, come quei dolori che si riacutizzano quando cambia il tempo, e per sempre io dovrò portarne il peso.
Volete sapere cosa rimane davvero alla fine di tutto questo grande casino? Soltanto un mesto senso di vergogna.
Mi vergogno per ciò che io stesso ho provocato e per le conseguenze che probabilmente ci saranno. Ma non si tratta solo di questo.
Soprattutto mi vergogno pensando a tutti coloro che vorrebbero vivere ed invece un male se li porta via, a tutti quelli che ho perso e neppure si sono accorti della fine, ai vecchi che il tempo li consuma lenti e a quei bambini cui la vita non fa regali neppure alla partenza.
Mi vergogno perché quel nero profondo, quando c’è, non dovrebbe comunque essere motivo per gettare la spugna senza tentare ancora un altro colpo contro i guai dell'esistenza.
Mi vergogno perchè qualcuno, nonostante tutto, mi vuole bene e lo sapevo; se ciò non mi è bastato il torto è solo mio.
La conclusione, se proprio deve essercene una, in fondo è tutta qui.

Io se mi guardo dentro vedo il mio cuore nero
Poi forse svanirò e non dovrò più guardare la realtà
Come si fa ad affrontare le cose se tutto il mondo è nero?
(da “Paint It Black”, The Rolling Stones)

venerdì 8 ottobre 2010

Colore nero abisso - due

È stata una giornata molto strana, ieri.

Mentre pensavo a cosa avrei dovuto fare per morire, confrontandomi con uno stato d’animo del tutto inusuale, finivo col compiere gesti sciocchi nella loro ordinarietà, decisamente incompatibili con i miei pensieri.
Voglio dire che – credo sarete d’accordo – non ha molto senso acquistare un nuovo spazzolino da denti sapendo che non si avrà occasione di adoperarlo.
Così come è stato del tutto inutile passare in cantiere a controllare se avevano scaricato il materiale atteso da settimane (a proposito, non è arrivato), oppure occuparsi del progetto - irrealizzabile – di un aumento di cubatura in pieno centro storico.
Immagino che tutto avesse a che fare con la necessità di mantenere un contegno, con la volontà di conservare una parvenza di normalità almeno sul lavoro e con gli estranei.
Intanto il tempo mi passava addosso ed io, lo ammetto, pur cercandolo, non riuscivo a trovare un solo pretesto per desistere.
Al contrario quando il beep del cellulare mi ha mostrato il suo messaggio – non ci sarò questa sera a casa, fai quello che vuoi – oltre al quando ho immaginato anche il dove sarebbe accaduto.
Poi, come un automa, ho ritirato la posta da una trimestrale allegra in modo irritante, ho scritto alcune lettere ed ho telefonato rinviando appuntamenti vari.
Ho cercato anche di immaginare l’espressione dei miei interlocutori una volta saputa la notizia; ma probabilmente la maggior parte di loro, dopo uno smarrimento di circostanza, chiederebbe soltanto quando poter ritirare i propri incartamenti.
Non so se riesco a rendervi l’assurdità della situazione.
Percepivo me stesso come fossi una marionetta i cui fili si erano ormai allentati; un pensiero riusciva bene, a comando, ed un altro subito dopo appariva completamente disarticolato ed incoerente.
Mi accompagnava soltanto la certezza di non avere più niente da dire e, peggio ancora, l’agghiacciante sensazione di non aver avuto mai nulla di importante da raccontare al mondo.
Come ho già detto, troppi problemi e troppi fallimenti con cui confrontarmi.
E ieri (oggi ancora non saprei) ero stanco degli uni e degli altri anche se la causa di entrambi, alla fine di questi pochi conti che rimangono, resto soltanto io.
So che potrete solo biasimarmi – anch’io al posto vostro lo farei – ma neppure il pensiero, pure presente, di non veder crescere mio figlio riusciva a distogliermi da un proposito insano ma almeno risolutivo.
Che per uno disperato, uno che in qualche modo si è sempre sentito provvisorio, credetemi, non è un fatto secondario.
E comunque, ho riflettuto, stando così le cose avrei avuto scarse possibilità di essere un buon padre, presente ed amato.
A beneficio dei miei giovani collaboratori, ho messo ordine in ufficio per ciò che potevo ed ho disposto persino alcuni pagamenti che rinviavo da settimane. Perché nessuno potesse dire, devo aver pensato, che l’ingegnere è morto per debiti.
La restante parte dei soldi – il disponibile, poca cosa – l’ho girata sul suo conto, perché ne facesse ciò che preferiva o almeno li adoperasse per il bimbo. Disgraziato si, ma anche responsabile!
Nel pomeriggio, perché ce l’avevo in agenda ma soprattutto per ingannare ancora il tempo e me stesso, ho persino presenziato ad un convegno su un argomento che neppure mi ricordo.
Fintanto che il disgusto per me stesso non ha avuto il sopravvento e, l’ennesima volta che qualcuno ha salutato dando appuntamento all’indomani, sono semplicemente andato via.
Perché quando è troppo è troppo. E nessuno più di me può saperlo.
[continua... forse]

martedì 5 ottobre 2010

Colore nero abisso

Ieri sera ho tentato di uccidermi.

Lo so, me ne rendo conto, non è una bella cosa da dire a degli estranei; anzi riconosco essere un’antipatica intromissione – la mia, non la vostra – nella vita altrui con una notizia sgradevole, non richiesta ma comunque vera.
Nel raccontarlo ora (che poi significa soprattutto nel poterlo raccontare) il fatto mi sembra anche meno drammatico di ciò che l’intento suggerisce ed anzi, per certi versi, mi appare quasi grottesco.
Sarà che, per l’appunto, sono ancora vivo; sarà che nonostante tutto ieri sono stato soltanto il protagonista inconsapevole della mia storia; sarà che ho sbagliato tutte - ma proprio tutte - le battute di un copione inesistente. Ma recitare all’impronta, si sa, è difficile, richiede un talento vero che evidentemente io non ho.
Però ho imparato una cosa importante.
Che l’angoscia, il sentirsi disperati – ed anche il compiere gesti che poi qualcuno definirà tali - non sono necessariamente sentimenti impulsivi, un qualcosa che per forza deve essere irriflessivo perchè dettato da un impeto. Per me almeno non è stato così.
Intendo dire che ieri mattina alle sette, quando sono uscito da casa, avevo già stabilito che volevo morire anche se, ad essere sincero, non è che avessi proprio le idee chiare in proposito. Forse la decisione l’avevo presa già durante la notte ma con l’alba mi è apparsa chiara e definitiva.
Un pensiero che si è insediato nella mia testa prima di ogni altro ed è stato talmente tenace che con il trascorrere lento delle ore mi è sembrato come se l’avessi sempre avuto.
Immagino che vorreste chiedermi le ragioni di una tale scelta, ammesso che averne possa in qualche modo spiegare, se non giustificare, il proponimento.
Accetto questa domanda muta - è il minimo se uno ha la fastidiosa spudoratezza di fare certe dichiarazioni – ma di motivi, giusti o sbagliati (che prima dovremmo intenderci sull’accezione degli uni e degli altri), non ne ho.
C'era solo l'eco - nessuna speranza, letteralmente, nessuna speranza - di tanti, troppi, errori. E problemi. E fallimenti.
Potreste dirmi – e forse avreste ragione ma capite bene che non avrebbe avuto importanza ieri e non ne ha ora - che non ci sono motivazioni abbastanza valide.
Così non provo neanche a spiegare, non tento neppure di ricalcolare la strada che ho percorso per arrivare fino a qui, con tutte quelle curve prese troppo in velocità e i tanti bivi sicuramente sbagliati.
Se una spiegazione è necessaria, se un motivo – uno soltanto - può bastare allora c’è soltanto quello. La disperazione.
Ho compreso che perdere la speranza è l’ultimo incidente (o se volete il penultimo) che può capitare alla nostra vita; non riuscire più a scorgere il domani diventa solo l’anticipazione della fine.
Una cornice nera per ogni proprio pensiero.
Uno schermo nero da fissare costantemente; come fosse una benda che è inutile togliersi perchè tanto non c'è altro da vedere.
Il riflesso, nero, della propria immagine e soprattutto la consapevolezza di apparire così anche agli altri.
Quel nero che a volte è come fosse un adesivo, che si appiccica addosso qualunque cosa uno faccia; un colore talmente profondo che quando ci sei immerso non riesci più a coglierne i confini in alcuna direzione. E appunto ti disperi.
[continua... forse]

mercoledì 28 luglio 2010

Sera d'estate

Ascolto
i miei pensieri
che hanno la tua voce,
i gesti con le mani
che intrecciano le mie,
il fiato col fiato si confonde,
il tempo di uno sguardo
che si consuma lento.

E i baci i baci i baci,
sono l’ingresso al giardino
del tuo corpo
e in esso io, cercandomi,
mi perdo.

mercoledì 30 giugno 2010

La seconda volta

La prima volta che ho incontrato Alessandra in realtà non era la prima volta.
Era già successo molti anni prima quando lei era la ragazza di un mio compagno di università e la sera – tutte le sere – uscivamo in comitive lunghe molte auto, a giro per le strade della notte, spesso col solo intento di aspettare i primi cornetti caldi dell’alba.
L’ho rivista un mese fa, quando ho accompagnato mia figlia alla preiscrizione al ginnasio anche se lo so – “per favore papà non mettermi in imbarazzo che qui nessuno sa cos’è un ginnasio” – che adesso si chiama scuola secondaria di secondo grado e, nello specifico, liceo classico europeo.
Da qualche parte dentro di me non potevo fare a meno di pensare che se i ragazzi adesso sono quasi tutti grandifratelli o naufraghifamosi è anche perché nessuno ha mai spiegato loro cos’era un ginnasio. Ma la mia era una riflessione nata già vecchia, ne ero consapevole.
La scuola aveva cambiato nome e strategie comunicative ma l’edificio sembrava sempre lo stesso. Non ci mettevo piede da decenni e nel farlo mi scoprivo emozionato; sicuramente per l'ennesima conferma di una vita in qualche modo già trascorsa ma soprattutto perché quel terremoto di mia figlia stava diventando grande ed io, incapace di esternare appieno i sentimenti, non ero certo sapesse quanto ero fiero di lei.
Nell’androne c’era una notevole attività e si era formata quella che avrebbe dovuto essere una fila in attesa ma – magia del popolo italico – assomigliava più ad un assembramento non autorizzato. Così, casualmente, mentre aspettavamo il nostro turno vicino a quella che un tempo era la porta del famigerato professor De Stefano, ho scoperto che Alessandra è il preside, pardon il dirigente scolastico del liceo.
La ricordavo come una ragazza carina - tanti capelli mossi su un viso sempre allegro - e ritrovavo una donna dal piglio autorevole che riusciva a condurre due distinte conversazioni telefoniche simultaneamente, mentre firmava non so cosa e supervisionava l’accoglienza di genitori e figli.
Mi si presentava una donna decisamente affascinante cui la vita forse aveva lasciato qualche ruga di troppo intorno agli occhi.
Quando è arrivato il nostro turno l’impiegata ha ripetuto ad alta voce nome e cognome di mia figlia e, dopo che qualcuno le ha portato una cartella sospesa di colore giallo, ha sbrigato la pratica in pochi minuti, raccogliendo alcune informazioni e consegnandole un elenco di documenti da presentare la volta successiva. Assegnata, sia pure provvisoriamente, al corso C.
Mentre andavamo via Alessandra è apparsa sulla soglia dell’ufficio per un benvenuto formale che poi si è trasformato in un saluto veloce – “Ma noi ci conosciamo, ciao sei tu? Come stai? Quanto tempo è passato…” - anche perché lei era evidentemente impegnata e comunque pareva poco propensa a ricordare quel passato goliardico che solo in piccola parte avevamo condiviso.

La prima volta che Alessandra mi ha telefonato non ha chiamato me e non l’ha neppure fatto lei personalmente.
Non so neppure perché continuo a pensare che quella sia stata la nostra prima telefonata.
In ogni caso è stato l’inizio di un qualcosa che prima non c’era ma da quel momento è come se ci fosse sempre stato.
Il cellulare di mia figlia squillò qualche giorno dopo, mentre io mi apprestavo a parcheggiare l’auto e lei si preparava psicologicamente ad affrontare al meglio una giornata di shopping compensativo, diceva lei, compulsivo precisavo io.
In realtà il piccolo Samsung, rigorosamente touch screen, non squillò affatto perché prese il via un cacofonico brano musicale – “ma papà, sono i Tokio!” – che ovviamente non potevo conoscere. Le suonerie di mia figlia, tra l’altro, cambiano ogni settimana e probabilmente anche a seconda del chiamante.
E' la scuola, vogliono te”, disse porgendomi il telefono pieno di sonaglini colorati.
Le passo la dottoressa… Pronto, non volevo disturbarti…”. La voce di Alessandra apparve improvvisamente nella mia testa ed io provai subito ad immaginarla, rivedendola con lo stesso tailleur nero – gonna longuette a linea dritta, camicia in seta bianca, giacca con revers a bottone unico, sandalo alto con plateau – che indossava a scuola.
Dalla segreteria reclamavano una mia firma che però, ne ero certo, nessuno si era ricordato di chiedermi. Cosicché aveva pensato di cercarmi e “…magari ti offro anche un caffè”.
Con la consueta spigliatezza che ha sempre contraddistinto il mio rapportarmi all’altro sesso riuscii ad articolare un mormorio di sorpresa insieme a qualche “certo, senz’altro, quando vuoi” che amplificarono il mio disorientamento e suscitarono i commenti sarcastici di mia figlia.
Ne fui abbastanza meravigliato e non seppi relegare l’episodio tra le cose imponderabili dell’esistenza; la qual cosa ebbe come immediata conseguenza la totale perdita di controllo sull’uso della carta di credito da parte della mia adorata ginnasiale.
Mi venne in mente che non avevo mai saputo perché quel mio amico ed Alessandra si fossero lasciati; semplicemente, almeno così mi pareva di ricordare, ad un certo punto lei era sparita dai nostri giri ed il gruppo si era rapidamente ricompattato su se stesso.
Il caffè che ne seguì fu lungo per entrambi. Lungo un pomeriggio intero oppure lungo quanto un pezzo di vita; almeno quella versione restaurata che si può aver voglia di ricordare e raccontare ad una quasi sconosciuta.
Senza alcun cerimonioso imbarazzo – più per merito suo in verità – riuscimmo a superare tutti i «ti ricordi?» per poi finalmente scherzare con una lunga serie di «perché tu invece non sai che» delle nostre reciproche vite. Insomma tutte quelle piccole cose – conoscenze comuni, situazioni paradossali, ricordi dimenticati - che potevano armonizzare quell’essersi ritrovati.
Tutto avvenne con una spontaneità tale da far dimenticare a me un appuntamento di lavoro e da farla sorridere rilassata persino quando raccontava di un marito ormai molto ex e decisamente poco empatico.
Per tutto il tempo senza mai smettere di guardarla, molto divertito dalla straniante familiarità della situazione, mi accorsi di un pensiero un attimo dopo averlo già formulato e fu inevitabilmente troppo tardi.
Era bella. Bella e radiosa quando rideva delle sue stesse battute o delle comuni coincidenze di pensieri.

La prima volta che io e Alessandra abbiamo fatto l’amore sembrava essere la seconda volta. Non saprei spiegarmi meglio di così.
Mi invitò da lei un pomeriggio di primavera inoltrata. La casa si trovava in un sobborgo pieno di ville mono familiari, alberi di alto fusto e biciclette nei giardini, con l’odore dell’erba tagliata che riempiva l’aria.
Mentre ero intento a domandarmi per quale motivo mi ostinassi a vivere in città sull’uscio comparve lei con uno dei suoi luminosi e contagiosi sorrisi.
Tre passi e dieci secondi dopo ci abbracciammo come se avessimo atteso da sempre quel momento e la sentii sciogliersi tra le mie braccia. Ed io, stupito di me stesso, mi sciolsi con lei.
Con una naturalezza cui ero poco abituato Alessandra mi mostrò la sua casa - in cui anche il disordine sembrava organizzato - e piano, con studiata lentezza, mi mostrò se stessa e il suo mondo, il suo corpo e la sua anima.
Evidentemente le parole con cui ci eravamo ritrovati non erano bastate perché entrambi, l’uno tra le braccia dell’altro, le mani intrecciate ed i respiri vicini, non riuscivamo a smettere di raccontarci.
Lei che si confidava molto più di quanto avesse fatto con sua sorella negli ultimi due anni – così diceva - ed io che parlavo senza alcuna remora di ampie porzioni della mia complicatissima vita; per poi scoprire, attraverso i suoi occhi, che forse tanto complicata non era.
Fino a quel silenzio naturale che sa unire piuttosto che dividere.
Così le voci lasciarono spazio ai baci e dopo fu solo un rincorrersi di corpi e mani e bocche, io con una frenesia dimenticata e lei, diceva, con una arrendevolezza sconosciuta.
Anche in quella camera dalle pareti di un caldo amaranto riuscimmo a trovarci senza alcun disagio e, rivelandoci l’uno all’altro, finimmo con lo scoprire un po’ di noi stessi.
Ed io, più di ogni altra cosa, liberai d'un tratto la mia voglia di vivere mentre lei lasciò correre la sua che con gli anni non sembrava – non era – diminuita ma anzi amplificata.
La seconda volta che ho fatto l’amore con Alessandra è stata come la fine di un lungo viaggio.
Come entrare in un’abitazione sconosciuta e sentire di essere finalmente giunto a casa.

(eri solo da incontrare ma tu ci sei sempre stata...)

sabato 1 maggio 2010

Il cuore in bilico

Me ne sto qui
appeso ai punti
sospesi di una frase,
con l'aria sciocca
di uno che si guarda dentro
e ride di stupore a quel che vede.
In bilico sui punti
resto qui,
attento alle emozioni
tese come una corda tesa,
tra le parole dette
e le tue labbra scure.