"Un mattino a Irgalem" di Davide Longo
Essenziale, asciutto, a tratti persino austero.
Potrebbero bastare questi tre aggettivi (e forse all’autore piacerebbe proprio così) per descrivere l’essenza di quest’opera prima datata 2001, premiata l’anno successivo come miglior esordio dalla giuria del Premio Grinzane Cavour.
Potrebbero bastare questi tre aggettivi (e forse all’autore piacerebbe proprio così) per descrivere l’essenza di quest’opera prima datata 2001, premiata l’anno successivo come miglior esordio dalla giuria del Premio Grinzane Cavour.
Pietro, il protagonista, all’inizio del racconto accende una sigaretta che un temporale spegnerà soltanto all’ultima pagina; nel mezzo, nonostante descrizioni anche accorte di paesaggi e situazioni, non si troverà neppure una parola più del necessario.
Forse perché su un treno militare che ti sta portando nel sud dell’Etiopia occupata (anno di grazia 1937) non c’è molto da dire; oppure perché i pensieri del giovane tenente oscillano tra un’introspezione malinconica e la curiosità per la difficile, impossibile, missione cui è chiamato come avvocato dell’esercito.
Sullo sfondo i nativi sembrano tollerare stancamente la presenza di occupanti con cui, in pratica, hanno già stretto un tacito accordo di mutuo soccorso all’insegna dell’unico imperativo comune: sopravvivere. Alla guerra, alla fame, agli abusi, a tutto. Almeno fino all’arrivo dei prossimi liberatori o nuovi occupanti.
Con una penna quanto mai sobria Longo descrive dialoghi, tratteggia storie e dipinge i volti di coloro che il protagonista troverà sul suo cammino, dai commilitoni troppo giovani agli ufficiali troppo corrotti, dalla donna che ha lasciato in patria fino a quella che troverà, seppure per poco, a destinazione.
Persino attraverso le omissioni riesce a delineare la figura dell’eroe negativo, il sergente Prochet. è quello che non parla quasi mai, colui di cui si sa poco ma si racconta molto, forse il personaggio più coerente fra tutti perché neppure per difendersi è disposto a compromessi.
Quel senso di disagio che sembra non abbandonare mai Pietro, neppure quando fa l’amore, si trasmette al lettore ed insinua il pensiero che solo al termine, insieme al protagonista, si troveranno le risposte a tutte le domande o almeno una pace interiore meno effimera.
Così, mentre si scorrono le pagine fino all’annunciato epilogo, quasi si avverte lungo la schiena la brezza calda e ruvida di un’Africa ormai dimenticata.
Non mi interessa tanto quello che scrivi ma come lo scrivi. Però dove sei finito parolaio? Il silenzio fa cosi tanto chiasso su queste pagine.
RispondiEliminaSerena