giovedì 7 agosto 2008

Lettere dal silenzio - cinque

Il ronzio del telefono la richiamò alla realtà e scoprì di aver ricevuto tre sms senza essersi accorta per tempo dei primi. Marco alle undici anzi alle ventitrèzerozero, come avrebbe sottolineato lui, che le rinfacciava giustamente un altro brutto appuntamento; Marco meno di un’ora dopo le inviava una gelida buonanotte con troppi punti di sospensione perché l’augurio potesse essere veritiero.
Adesso si era aggiunto il messaggio di un altro tizio che da qualche tempo la annoiava; un tale verso cui lei aveva commesso il grande errore di farlo sentire diverso da quella nullità che era!
Nessuno meritava una risposta.
Tornò al tavolo e provò ancora una volta a dare un senso a quelle lettere – quelle del pennarello rosso – scritte sul retro delle buste.
Le dispose ordinatamente separando vocali e consonanti ma neppure questo l’aiutò a comprendere qualcosa di più. Tra quelle ancora chiuse c’erano quattro lettere O e altre due lettere A; alcune di queste sembravano contenere molte pagine ed erano quelle che più la attraevano e spaventavano al tempo stesso.
Ormai l’inquietudine era quasi del tutto scomparsa per lasciare spazio se non ad una nuova coscienza almeno all’intenzione di fare chiarezza. Non sarebbe andata via senza prima aver saputo tutto ciò che poteva, senza prima aver compreso tutto quello che fino ad allora aveva scelto di ignorare.
Scelse una lettera L, tirò i lembi senza troppa cura e scorse con emozione la grafia minuta ed ordinata di Alessandro su varie pagine piegate tra loro; alcuni fogli caddero sul pavimento e nel raccoglierli non potè fare a meno di leggere e restare ancora una volta senza fiato.
“Ma come è possibile che tu non te ne accorga? Non puoi non sapere, maledizione, non puoi non vedere quanto io sia innamorato di te. Sono innamorato di te Claudia. Sono innamorato di te da così tanto tempo che neppure lo ricordo. Io ti amo. Ti amo con quella ottusa determinazione che può avere solo chi si è ormai abituato a stare nell’ombra. Nonostante il tuo evidente disinteresse, forse ti amo proprio perché resto sempre un passo dietro te, dietro l’ultima delle quinte di un palcoscenico su cui tu vuoi altri protagonisti o, semplicemente, non vuoi me.
Ti amo perché da te non voglio nulla e al tempo stesso vorrei avere tutto. Ti amo perché non mi rassegno ancora al tuo rifiuto di ogni intimità, emotiva o mentale che sia.
Ho cercato di dirtelo, ho provato a fartelo capire ma, forse per mia incapacità, sicuramente per tua indifferenza, non ho saputo interessarti più di così. Ora non ho più voglia di avvicinarmi a te perché il tuo scherno fa più male persino dei tuoi no; perché il sarcasmo ormai è diventato il tuo rimedio per ogni caso della vita ed io proprio non riesco ad accettarlo.
Non ti capisco, spesso non ti capisco e per questo mi danno inutilmente la vita perché comprenderti e ciò che vorrei di più”.
Alessandro innamorato!
Leggere quelle parole, dure ed appassionate, era un po’ come essere schiaffeggiata; sentiva il viso bruciarle e la gola arsa di una rabbia stanca e inutile. Peggio ancora, quelle parole la facevano sentire impreparata, indifesa.
Aveva perso il controllo della situazione. In quella stanza semi buia, in quel momento di estrema solitudine, finalmente, non controllava più gli eventi e questo pensiero, nel mentre la terrorizzava, la fece sentire anche più leggera.
Alessandro che dice di amarmi, Alessandro rifiutato!
Entrambi avevano sempre condotto vite separate, ciascuno con le proprie storie più o meno importanti, ciascuno rivolto verso interessi e persone diverse. C’erano state, è vero, alcune occasioni in cui avevano smesso di comportarsi solo come due colleghi, momenti in cui il loro legame si era rinforzato anche al di fuori del lavoro.
Lei, però, inebriata dal sentirsi cacciatrice, aveva sempre sorvolato sui gesti piuttosto che sulle parole dette e su quelle sapientemente taciute.
Accese la sua penultima sigaretta e guardo l’orologio; notte fonda ormai. Riprese a leggere quei fogli pesanti come marmo.
“Ricordi la sera dopo l’inaugurazione del palazzetto? Pensavo di piacerti, sapevo, sentivo di non esserti indifferente ma tu non dicesti nulla, né allora né dopo. Né mai più. Niente, non una parola neppure il giorno appresso.
Ma davvero hai creduto fossimo lì per caso? Che qualche bicchiere in più potesse essere una valida giustificazione per un bacio o per velare una verità abbastanza eclatante?
Non rimpiango nulla di quello che ho fatto per te, dei gesti che conosci e di quelli che non saprai mai. Avrei voluto solo che tu te ne accorgessi, soltanto un po’ di considerazione, di affetto...".
Si sorprese a ricordare tutte le volte che realmente lei si era comportata così, per quieto vivere piuttosto che per un malinteso senso di indipendenza. Una frase scherzosa sulla porta dell’ufficio, gli occhiali da sole adoperati come un paraocchi ed un arrivederci più o meno sbrigativo.
Quando avevano sbagliato la prima volta e quando l’ultima? Quando il vivere quotidiano aveva oscurato i sensi e i sentimenti come un tramonto troppo frettoloso?
“Non è facile convivere col desiderio di vederti l’indomani e, al tempo stesso, con la consapevolezza che anche quel giorno vivrà della tua allegra noncuranza. Mi sarei fatto bastare persino un rifiuto, chiaro ed indiscutibile nella sua definitività, invece che l’ennesimo sorriso un po’ tirato, una scrollata di spalle ed una battuta scherzosa.
Ho provato ad estraniarmi ed ho provato ad allontanarti ma già nel tentativo era insito il fallimento e, tutto sommato, va bene così. La mia vita è più bella se tu ci sei, per quello che ci sei, per quel poco che vuoi dare di te stessa.
E questa potrebbe anche essere la mia considerazione finale. Quello che non è accaduto non è accaduto. Quello che non hai detto non sentivi di dirmelo. Quello che non hai fatto non hai voluto fare. Se non mi ami allora non mi ami.
A questa verità anche il più stupido degli innamorati deve arrivare, magari attraverso la strada più lunga e tortuosa, proprio come penso di esserci arrivato io.
Ché peggio sarebbe stato – ed a volte purtroppo mi arrovello ancora in questi pensieri – se tu avessi annegato qualunque sentimento in un mare di silenzi e di omissioni, in nome della tua orgogliosa indipendenza”.
Sentì una lacrima affilata come una lama segnarle il viso; serrò i pugni intorno ai fogli e la ignorò.
“Quanto ho desiderato la tua complicità, quanto avrei voluto che ti lasciassi andare, una volta, una volta soltanto. Per convincermi di non aver immaginato tutto, per sentire davvero i tuoi pensieri e accarezzarti l’anima.
Non posso sapere se ci sarei riuscito ma so che ci avrei provato davvero e forse, probabilmente, le nostre vite avrebbero seguito altri percorsi”.
Il pianto vero, quella disperazione liberatoria di cui sentiva il bisogno, ancora non c’era ma sapeva che non avrebbe tardato. Girò l’ultima pagina e lesse l’ultima frase.
“Perché, a dispetto della tua sprezzante autosufficienza, amarti mi arricchisce e forse mi rende una persona migliore”.
Punto a capo. Punto e basta.
La stanza era satura di fumo e di fogli sparsi.
I suoi pensieri rincorrevano le parole solo apparentemente immobili sulla carta senza riuscire a raggiungerle, ad impadronirsene del tutto.
Le quattro del mattino ed aveva letto quasi tutto ciò che lui le aveva lasciato.
Parte, si trasferisce. Così era cominciata quella lunga notte ed ancora non sapeva come e quando sarebbe terminata.
Alessandro trasloca la propria vita ed Alessandro che non era mai stato tanto vicino come in quel momento.
Questa per lei era la novità più sconcertante anche se un’indicibile tristezza scosse i suoi singhiozzi sopiti.
In bocca le rimase, acre, il sapore di tutto il tempo perso.
Tirò su col naso e strappò, testarda, la lettera E segnata sull’ultima busta…

martedì 5 agosto 2008

Lettere dal silenzio - quattro

“Vorrei dirti che mi dispiace. Vorrei dirtelo ora, proprio adesso che sento i tuoi passi perdersi nel corridoio verso l’uscita. Vorrei dirtelo ma non ci sei già più e ancora un volta mi ritrovo stancamente su questi fogli a parlare con te di cose che non sai. Perché non te le ho dette mai o perché tu stessa vuoi che sia così.
Mi dispiace aver urlato oggi pomeriggio, durante quella stupida riunione.
Avrei voluto trovare un altro modo per sostenere le mie ragioni e soprattutto non avrei dovuto mettere in imbarazzo te e tutti gli altri.
Mi dispiace, ti chiedo scusa ancora”.
Leggere quelle prime frasi l’aveva stupita; semmai possibile, in una sera già così strana, si sentiva ancor più disorientata, persa tra un indefinito passato ed un complicato presente. Un corto circuito della memoria le riproponeva le domande: a quale episodio si riferiva? Quando era stata scritta questa pagina? Non aveva scorto alcun riferimento, temporale o di altra natura, ma forse continuare nella lettura l’avrebbe aiutata.
“Però sono ancora convinto di avere ragione! Il progetto, così come l’ha modificato quell’idiota, è diventato un’altra cosa, è uno schifo, non si può fare! Anzi non dovremmo neppure prendere in considerazione varianti e pretendere il rispetto del contratto; né penso che la diplomazia di cui parli tu (che poi tanto diplomatica a me non sei mai sembrata) possa mutare i fatti.
Eri bellissima oggi.
Lo so che questo non c’entra niente con il lavoro ma è quello che penso, è quello che sento. Tutto avrei voluto tranne che scontrarmi con te e poi concludere in questo modo la giornata. Mi sento molto frustrato!
Probabilmente, sicuramente, la mia delusione non ha nulla a che fare con lo stupido progetto di un ottuso palazzinaro. La verità è che volevo avere la tua attenzione e spesso tra noi discutere diventa un altro modo – a volte temo l’unico - di comunicare.
La verità è che non sopporto quando mi ignori, quando mostri indifferenza nei miei riguardi, quando arrivi in ufficio la mattina ed io non sono il tuo primo saluto della giornata. Come ieri, per esempio!
La verità (ma quante ce ne potranno mai essere in ciascuno dei nostri contraddittori pensieri?) è che più ti allontani da me più io ti penso. Più a distanza mi tieni più ancora io non so fare a meno di cercarti.
Posso immaginare l’espressione del tuo viso semmai dovessi leggere queste parole. Forse saresti appena divertita, in ogni caso seccata da tante inutili elucubrazioni; probabilmente faresti una delle tue solite battute a sostegno di un pragmatismo femminile che però, sinceramente, io spesso non ti riconosco.
Una freddura sarebbe, nel senso letterale dell'espressione, perché tu sai – sono sicuro che lo sai – che ha su di me l’effetto di una cortina polare; ed io mi sento sempre come un Titanic finito contro l’iceberg del tuo (finto?) umorismo.
Certe volte penso che lo fai con vera cattiveria e mentre torno nella mia stanza non posso fare a meno di sentire che il tuo distacco non è ostentazione ma realtà. Cattiva, cattiva e bellissima. Ciao Clà”.

Respira e zitta, si disse, stai zitta.
Non muovere un muscolo, non pensare. Respira.
La lettera, se lettera era, terminava in modo naturale come se lui la stesse salutando davvero. Soltanto Alessandro storpiava il suo nome in quel modo, troncandolo non con un apostrofo ma pronunciandolo con un accento. Perché tu ami i particolari estrosi, le diceva scherzando, e quindi anche nel nome puoi avere solo qualcosa da aggiungere e non da togliere.
Ora ricordava i dettagli di quella tempestosa riunione di quasi un anno prima e del litigio che ne era seguito; ricordava anche che il giorno dopo tutto era stato dimenticato, almeno da parte sua. Quel progetto era stato poi completato con successo, senza le variazioni aborrite da lui ma grazie alla capacità persuasiva di lei.
Accese un’altra sigaretta e rilesse alcuni passaggi dello scritto. C’erano tanti elementi su cui riflettere e, quasi involontariamente, formulò una giustificazione come se lui fosse lì a guardarla con la solita aria interrogativa.
Non sapevo, provò a dire a se stessa, non immaginavo.
Ma davvero non ne aveva alcuna cognizione? La spiegazione le suonò falsa ancor prima di terminare il pensiero.
Quando era cambiato l’atteggiamento di Alessandro nei suoi confronti? Quando i suoi sentimenti si erano trasformati? E quando lei aveva indossato per la prima volta quella’armatura cinico-umoristica che adesso le pesava così tanto?
Cercò una risposta qualsiasi nelle altre buste sparse sulla scrivania pur sapendo che difficilmente ne avrebbe trovata una soddisfacente, soprattutto all’ultima domanda.
Ne scelse una contraddistinta con una lettera C ma si accorse poi che ce n’era un’altra uguale. Qualcosa dovevano pur significare ma ora proprio non aveva voglia di perdersi in altri rebus.
Questa volta la busta conteneva soltanto due piccoli fogli quadrati strappati via da quei blocchi per appunti da scrivania; entrambi erano senza data e senza firma.
Sul primo lesse “Spero che questo libro possa farti ritrovare il buonumore o, almeno, rasserenarti un po’. Spero che la tua nuova stanza ti piaccia e che tu non sia allergica anche a questi fiori. Spero che…”.
A quale libro si riferiva? Così di primo acchito non riusciva a ricordare; del resto Alessandro gliene aveva regalati talmente tanti di libri. Libri, fiori, oggetti personali. Per la verità lei si era anche chiesta il perché di alcune ricorrenti attenzioni ma poi, sentendosene gratificata più che incuriosita, aveva preferito trascurarne le motivazioni allo stesso modo in cui ignorava le occhiate pettegole delle segretarie.
Si alzò dalla poltrona e si accostò alla finestra grande quanto tutta la parete; giù in strada, però, non c’era quasi più nessuno ed alcune auto ferme ad un semaforo erano una ben misera distrazione.
In realtà, dovette ammettere mentre giocava con il riflesso del suo profilo, non aveva mai fatto domande perché non voleva conoscere le risposte. Perché non sentiva di essere interessata. Ma poi era davvero così?
Smise di arrotolare nelle mani l’altro biglietto e lo dispiegò.
“Sono contento tu sia tornata. L’ufficio non è più lo stesso quando non ci sei”.
Lei questi messaggi non li aveva mai visti prima, mai avuti, mai letti.
Prese una busta sottile con sopra la lettera R; anche questa doveva contenere un breve pensiero. Su un Post-it arancione, infatti, c’era scritta solo una frase: “Se non intuissi già la tua risposta avrei il coraggio di dirti ciò che sei per me. Auguri”. Auguri per cosa? Auguri per quando?
Perché scrivere e poi chiudersi in un cassetto?
Perché dissimulare un bel gesto? Perché nascondersi?
[continua... forse]

domenica 3 agosto 2008

Lettere dal silenzio - tre

L’ordine - il maniacale ordine - della scrivania non sembrava diverso dal solito. Lampada, matite colorate, il planning settimanale, il fermacarte di acciaio; tutto era al solito posto e al tempo stesso tutto le appariva come fuori contesto. Forse era solo suggestione.
Tanto per fare qualcosa che ponesse fine all’inerzia di quel momento si alzò e accese la piccola web radio appesa al muro. Poi torno a sedersi ed a guardare le stampe sulle altre pareti. Nel frattempo la musica, proveniente da un’emittente canadese, prese a fare da sottofondo ai suoi pensieri.
Con un senso di benessere si tolse le scarpe.
Si trasferiva in un’altra città! Non poteva essere un errore, la ragazza aveva parlato di un vero e proprio trasloco. Non poteva neppure essere un’azione impulsiva; conoscendolo aveva pianificato tutto da settimane, da mesi.
Con rabbia crescente si chiese ancora una volta se gli altri soci o se gli impiegati dello studio ne erano a conoscenza. Doveva senz’altro essere così, erano troppe le implicazioni personali e professionali, troppi gli impegni e le responsabilità. Nessuno poteva andarsene dall’oggi al domani, nessuno.
Non Alessandro comunque.
Quindi soltanto lei era ignara di tutto, lei era quella destinata a scoprirlo un lunedì mattina qualunque, lei era la vittima della macchinazione! Come pensavano di comunicarglielo? A ondate la rabbia sembrava prendere il sopravvento ed i pensieri più assurdi le salivano in gola. Ma quale complotto? E poi, si chiese con un accenno di lucidità, lei era la vittima o il carnefice?
Alla ricerca di un indizio qualsiasi aprì il primo dei cassetti posti al di sotto del piano in ciliegio e sorrise sollevata nel riconoscere la perfetta disposizione della cancelleria: tutte le penne a china da una parte e tutte disposte nello stesso verso, la spillatrice e i suoi ricambi al centro, gli elastici in alto a destra e i Post-it colorati subito in basso.
Quante volte l’aveva preso in giro? Quante volte ne avevano riso insieme? Sul lavoro lui si presentava con una meticolosità e, a volte, con un indisponente pretesa di controllo che non gli riconosceva nell’intimità; almeno in quella che era a lei nota.
Soltanto una delle due agende era al solito posto ma questa non era un’informazione saliente; c’erano anche alcuni disegni ed appunti vari di lavoro. Insomma nulla da segnalare.
Presa da queste considerazioni aprì il secondo cassetto, quello degli effetti personali, e… «Cazzo!», mormorò con le labbra contratte mentre realizzava che era quasi del tutto vuoto. Su tutte le contrastanti emozioni che la animavano sentì un senso di panico prendere il sopravvento.
Era rimasto pochissimo di ciò che normalmente attestava la presenza quotidiana del proprietario. Aveva portato via i documenti e il suo iPod, un album con vecchie fotografie e il palmare, la stilografica Oman – la penna dei contratti importanti – e quella vecchia edizione del suo libro preferito, Il vecchio e il mare.
Nel fondo del cassetto c’era solo un raccoglitore pieno di biglietti da visita ed un pacco di buste formato E5 tenute insieme da un nastro azzurro.
Tutti in ufficio usavano quel tipo di buste per la corrispondenza ma la incuriosì il fatto che fossero prive del logo a stampa. Quindi, dedusse, dovevano essere lì da molto tempo.
Lettere? Per chi? Nel momento stesso in cui pose il punto interrogativo al termine del suo pensiero percepì l’inutilità della domanda.
Prese il piccolo fagotto e lo esaminò con gli occhi ancor più che con le mani. Dovevano esserci una ventina di buste, alcune molto sottili altre decisamente più gonfie.
Posò l’involto sulla scrivania dinanzi a sé e stette a considerarne il peso, soprattutto quello simbolico; pensò di andarsene e lasciare tutto così com’era ma con irritazione si rese conto di sentirsi chiusa in una gabbia di cui lei stessa aveva buttato via le chiavi.
Adesso era lì e – per quanto male potesse fare – non c’era altro posto al mondo in cui avrebbe voluto essere.
Alla luce di un’altra sigaretta sciolse il nodo al fiocco colorato e sentì stringersi quello del suo stomaco; le buste si sparpagliarono sul piano.
Non c’era mittente, non c’era destinatario, non c’era data, non c’era scritto nulla.
Sul retro di ciascuna, proprio al vertice del triangolo formato dei lembi di chiusura, c’era un carattere dell’alfabeto disegnato con un pennarello rosso.
Quella che aveva in mano adesso riportava la lettera H.
Le lettere sulle altre buste sembravano disposte alla rinfusa, senza un senso compiuto, almeno non in ordine consecutivo; vedeva una T, due S, una M, contò tre I ed ancora un mucchio di vocali disseminate nella confusione di quel momento.
Tutto questo era così tipico di Alessandro. L’apparente casualità di gesti, parole, comportamenti celava sempre un altro significato; anche i dettagli dei suoi disegni raramente potevano ritenersi elementi architettonici fini a se stessi, più spesso avevano una propria funzionalità, una loro specifica ragion d’essere.
In quel momento capì che – a parte l’imprevedibilità di quanto accaduto al bar – non vi era nulla di fortuito neppure nell’aver scoperto quelle buste. E seppe senza alcun dubbio di essere l’unica destinataria di qualsiasi messaggio fosse in esse contenuto.
Da quanto tempo erano lì quelle lettere? Qual era la prima e quale l’ultima?
Ne prese una dal mucchio sparso sulla scrivania – una contrassegnata con la lettera A – e sospirando, controvoglia, la aprì.
[continua... forse]

venerdì 1 agosto 2008

Lettere dal silenzio - due

«Sai che Alessandro parte?», aveva detto una ragazza bruna ad un’amica.
«Alessandro chi?», aveva risposto l’altra mentre salutava distrattamente un tizio invece molto interessato a lei.
«L’architetto, il mio amico Alessandro… te ne ho parlato. Quello del progetto giù al porto turistico. L’hai anche conosciuto alla festa di Natale!». Già a questo punto quella conversazione aveva distolto e monopolizzato la sua attenzione.
Le ragazze erano entrambe sedute davanti al bancone colorato del bar, su sgabelli altissimi in plastica trasparente; gambe in bella mostra e almeno una delle due – quella distratta – con evidenti problemi di cellulite.
Entrando nel locale erano le prime persone che si era trovata davanti e poi, mentre aspettava che si liberasse un tavolo, era capitata a poche decine di centimetri dalle loro spalle e dalle loro voci.
«Sarà ma non credo di ricordarlo», era stata la replica, per poi aggiungere «Che vuol dire che parte? Vacanza, lavoro, cosa? Che c’è di insolito?».
Anche lei aveva pensato la stessa cosa. Che c’è di strano, che cosa vuoi dire? E qualunque cosa sia dilla ora perché ormai ci stanno indicando dei posti liberi dall’altra parte della sala.
«Parte. Trasloca. Si trasferisce in un’altra città».
Le parole si erano solidificate nell’aria fredda come se fossero state prodotte dal condizionatore montato sul soffitto; e come cubetti di ghiaccio le avevano procurato un’insopportabile brivido lungo la schiena.
Parte. Trasloca. Mentre si sedeva al tavolino e non rispondeva alla domanda del cameriere continuava a ripetersi quelle parole per renderle reali, per essere sicura di non averle immaginate.
Si trasferisce in un’altra città.
Ma dove? Quando? Perché lei non ne sapeva nulla? Gli altri in ufficio ne erano informati? Decine di improvvise domande si avvicendavano e tutte sembravano richiedere urgenti risposte. Come era possibile che stesse accadendo davvero un’enormità come quella? Ma, ancora più importante, perché? La stessa morsa allo stomaco che aveva avvertito prima ripropose ora la sua stretta energica e sembrò darle il presagio di una risposta.
Tra la quiete apparente della stanza ed il fragore dei suoi pensieri cercò di ricordare cos’è che poi aveva confusamente farfugliato.
Si, sono un po' stanca. No, va tutto bene. Si il mojito mi piace. No, io non posso berlo ora perché… perché… devo andar via! Devo sistemare una faccenda, magari ci vediamo dopo.
Quest’ultima parte l’aveva memorizzata meglio. L’espressione incredula di Marco mentre lei letteralmente fuggiva, rapita da un’angoscia inesprimibile con le parole, promettendo una telefonata che non sarebbe mai arrivata; non quella sera in ogni caso.
Uscendo dal locale aveva tirato il fiato e, per un attimo, era stata tentata dal chiamare Alessandro e chiedergli conto di tutto oppure semplicemente sbattergli in faccia che lei sapeva!
Invece si era subito diretta verso l’ufficio come se dovesse trovare la prova materiale di un delitto o, più semplicemente, l
a conferma di quelle maledette parole – parte, trasloca, si trasferisce – ancora immobili nell'aria come un fumetto triste. Ed ora si trovava lì, sola e quasi al buio seduta alla scrivania di lui, incapace di articolare pensieri troppo profondi per paura di trovare risposte altrettanto assolute.
Si accese una sigaretta, l’ennesima della serata. Lui non avrebbe voluto ma non le importava e poi l’aria condizionata era spenta.
Riflettè su ciò che era accaduto negli ultimi tempi. I loro contatti si erano alquanto diradati ma questo, tutto sommato, non era un fatto inconsueto nel loro rapporto; c’erano sempre state fasi alterne, avvicinamenti e distacchi, a volte senza un motivo specifico ed altre appresso ad una discussione o un litigio. Niente però aveva mai intaccato quel feeling fondato sicuramente sulla reciproca attrazione ma anche su lunghi, eloquenti, silenzi.
Alessandro, poi, era stato molto impegnato con quel suo nuovo progetto e lei... lei praticamente non c’era stata mai in ufficio presa dal lavoro, dalla partecipazione ad alcuni convegni e da altri impegni fuori città.
Quanto tempo era trascorso dall’ultima volta che avevano preso un caffè insieme? Settimane forse e addirittura mesi dall’ultimo pranzo; quest’ultimo se lo ricordava bene perché avevano trascorso un bel pomeriggio.
Di recente, al ritorno da un ennesimo viaggio, lo aveva ritrovato più scontroso del solito ma non se n’era curata più di tanto e, francamente, aveva altro a cui pensare.
Adesso, però, sembrava che stesse accadendo qualcosa di drammatico e definitivo; non riusciva a spiegarsi neppure le sue stesse sensazioni mentre cercava freneticamente di unire i pensieri come i tasselli di un enorme puzzle.
Spense la sigaretta nel fondo di un bicchiere d’acqua e indugiò nel silenzio.
[continua... forse]