domenica 3 agosto 2008

Lettere dal silenzio - tre

L’ordine - il maniacale ordine - della scrivania non sembrava diverso dal solito. Lampada, matite colorate, il planning settimanale, il fermacarte di acciaio; tutto era al solito posto e al tempo stesso tutto le appariva come fuori contesto. Forse era solo suggestione.
Tanto per fare qualcosa che ponesse fine all’inerzia di quel momento si alzò e accese la piccola web radio appesa al muro. Poi torno a sedersi ed a guardare le stampe sulle altre pareti. Nel frattempo la musica, proveniente da un’emittente canadese, prese a fare da sottofondo ai suoi pensieri.
Con un senso di benessere si tolse le scarpe.
Si trasferiva in un’altra città! Non poteva essere un errore, la ragazza aveva parlato di un vero e proprio trasloco. Non poteva neppure essere un’azione impulsiva; conoscendolo aveva pianificato tutto da settimane, da mesi.
Con rabbia crescente si chiese ancora una volta se gli altri soci o se gli impiegati dello studio ne erano a conoscenza. Doveva senz’altro essere così, erano troppe le implicazioni personali e professionali, troppi gli impegni e le responsabilità. Nessuno poteva andarsene dall’oggi al domani, nessuno.
Non Alessandro comunque.
Quindi soltanto lei era ignara di tutto, lei era quella destinata a scoprirlo un lunedì mattina qualunque, lei era la vittima della macchinazione! Come pensavano di comunicarglielo? A ondate la rabbia sembrava prendere il sopravvento ed i pensieri più assurdi le salivano in gola. Ma quale complotto? E poi, si chiese con un accenno di lucidità, lei era la vittima o il carnefice?
Alla ricerca di un indizio qualsiasi aprì il primo dei cassetti posti al di sotto del piano in ciliegio e sorrise sollevata nel riconoscere la perfetta disposizione della cancelleria: tutte le penne a china da una parte e tutte disposte nello stesso verso, la spillatrice e i suoi ricambi al centro, gli elastici in alto a destra e i Post-it colorati subito in basso.
Quante volte l’aveva preso in giro? Quante volte ne avevano riso insieme? Sul lavoro lui si presentava con una meticolosità e, a volte, con un indisponente pretesa di controllo che non gli riconosceva nell’intimità; almeno in quella che era a lei nota.
Soltanto una delle due agende era al solito posto ma questa non era un’informazione saliente; c’erano anche alcuni disegni ed appunti vari di lavoro. Insomma nulla da segnalare.
Presa da queste considerazioni aprì il secondo cassetto, quello degli effetti personali, e… «Cazzo!», mormorò con le labbra contratte mentre realizzava che era quasi del tutto vuoto. Su tutte le contrastanti emozioni che la animavano sentì un senso di panico prendere il sopravvento.
Era rimasto pochissimo di ciò che normalmente attestava la presenza quotidiana del proprietario. Aveva portato via i documenti e il suo iPod, un album con vecchie fotografie e il palmare, la stilografica Oman – la penna dei contratti importanti – e quella vecchia edizione del suo libro preferito, Il vecchio e il mare.
Nel fondo del cassetto c’era solo un raccoglitore pieno di biglietti da visita ed un pacco di buste formato E5 tenute insieme da un nastro azzurro.
Tutti in ufficio usavano quel tipo di buste per la corrispondenza ma la incuriosì il fatto che fossero prive del logo a stampa. Quindi, dedusse, dovevano essere lì da molto tempo.
Lettere? Per chi? Nel momento stesso in cui pose il punto interrogativo al termine del suo pensiero percepì l’inutilità della domanda.
Prese il piccolo fagotto e lo esaminò con gli occhi ancor più che con le mani. Dovevano esserci una ventina di buste, alcune molto sottili altre decisamente più gonfie.
Posò l’involto sulla scrivania dinanzi a sé e stette a considerarne il peso, soprattutto quello simbolico; pensò di andarsene e lasciare tutto così com’era ma con irritazione si rese conto di sentirsi chiusa in una gabbia di cui lei stessa aveva buttato via le chiavi.
Adesso era lì e – per quanto male potesse fare – non c’era altro posto al mondo in cui avrebbe voluto essere.
Alla luce di un’altra sigaretta sciolse il nodo al fiocco colorato e sentì stringersi quello del suo stomaco; le buste si sparpagliarono sul piano.
Non c’era mittente, non c’era destinatario, non c’era data, non c’era scritto nulla.
Sul retro di ciascuna, proprio al vertice del triangolo formato dei lembi di chiusura, c’era un carattere dell’alfabeto disegnato con un pennarello rosso.
Quella che aveva in mano adesso riportava la lettera H.
Le lettere sulle altre buste sembravano disposte alla rinfusa, senza un senso compiuto, almeno non in ordine consecutivo; vedeva una T, due S, una M, contò tre I ed ancora un mucchio di vocali disseminate nella confusione di quel momento.
Tutto questo era così tipico di Alessandro. L’apparente casualità di gesti, parole, comportamenti celava sempre un altro significato; anche i dettagli dei suoi disegni raramente potevano ritenersi elementi architettonici fini a se stessi, più spesso avevano una propria funzionalità, una loro specifica ragion d’essere.
In quel momento capì che – a parte l’imprevedibilità di quanto accaduto al bar – non vi era nulla di fortuito neppure nell’aver scoperto quelle buste. E seppe senza alcun dubbio di essere l’unica destinataria di qualsiasi messaggio fosse in esse contenuto.
Da quanto tempo erano lì quelle lettere? Qual era la prima e quale l’ultima?
Ne prese una dal mucchio sparso sulla scrivania – una contrassegnata con la lettera A – e sospirando, controvoglia, la aprì.
[continua... forse]

1 commento:

  1. Vai su Ilmiolibro.it. Ti interesserà. Per il resto che dirti? Non posso continuare a passare da qui tutti i giorni, più volte al giorno, per vedere come va a finire. ;-) Ciao da OcchiNeri

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