martedì 5 agosto 2008

Lettere dal silenzio - quattro

“Vorrei dirti che mi dispiace. Vorrei dirtelo ora, proprio adesso che sento i tuoi passi perdersi nel corridoio verso l’uscita. Vorrei dirtelo ma non ci sei già più e ancora un volta mi ritrovo stancamente su questi fogli a parlare con te di cose che non sai. Perché non te le ho dette mai o perché tu stessa vuoi che sia così.
Mi dispiace aver urlato oggi pomeriggio, durante quella stupida riunione.
Avrei voluto trovare un altro modo per sostenere le mie ragioni e soprattutto non avrei dovuto mettere in imbarazzo te e tutti gli altri.
Mi dispiace, ti chiedo scusa ancora”.
Leggere quelle prime frasi l’aveva stupita; semmai possibile, in una sera già così strana, si sentiva ancor più disorientata, persa tra un indefinito passato ed un complicato presente. Un corto circuito della memoria le riproponeva le domande: a quale episodio si riferiva? Quando era stata scritta questa pagina? Non aveva scorto alcun riferimento, temporale o di altra natura, ma forse continuare nella lettura l’avrebbe aiutata.
“Però sono ancora convinto di avere ragione! Il progetto, così come l’ha modificato quell’idiota, è diventato un’altra cosa, è uno schifo, non si può fare! Anzi non dovremmo neppure prendere in considerazione varianti e pretendere il rispetto del contratto; né penso che la diplomazia di cui parli tu (che poi tanto diplomatica a me non sei mai sembrata) possa mutare i fatti.
Eri bellissima oggi.
Lo so che questo non c’entra niente con il lavoro ma è quello che penso, è quello che sento. Tutto avrei voluto tranne che scontrarmi con te e poi concludere in questo modo la giornata. Mi sento molto frustrato!
Probabilmente, sicuramente, la mia delusione non ha nulla a che fare con lo stupido progetto di un ottuso palazzinaro. La verità è che volevo avere la tua attenzione e spesso tra noi discutere diventa un altro modo – a volte temo l’unico - di comunicare.
La verità è che non sopporto quando mi ignori, quando mostri indifferenza nei miei riguardi, quando arrivi in ufficio la mattina ed io non sono il tuo primo saluto della giornata. Come ieri, per esempio!
La verità (ma quante ce ne potranno mai essere in ciascuno dei nostri contraddittori pensieri?) è che più ti allontani da me più io ti penso. Più a distanza mi tieni più ancora io non so fare a meno di cercarti.
Posso immaginare l’espressione del tuo viso semmai dovessi leggere queste parole. Forse saresti appena divertita, in ogni caso seccata da tante inutili elucubrazioni; probabilmente faresti una delle tue solite battute a sostegno di un pragmatismo femminile che però, sinceramente, io spesso non ti riconosco.
Una freddura sarebbe, nel senso letterale dell'espressione, perché tu sai – sono sicuro che lo sai – che ha su di me l’effetto di una cortina polare; ed io mi sento sempre come un Titanic finito contro l’iceberg del tuo (finto?) umorismo.
Certe volte penso che lo fai con vera cattiveria e mentre torno nella mia stanza non posso fare a meno di sentire che il tuo distacco non è ostentazione ma realtà. Cattiva, cattiva e bellissima. Ciao Clà”.

Respira e zitta, si disse, stai zitta.
Non muovere un muscolo, non pensare. Respira.
La lettera, se lettera era, terminava in modo naturale come se lui la stesse salutando davvero. Soltanto Alessandro storpiava il suo nome in quel modo, troncandolo non con un apostrofo ma pronunciandolo con un accento. Perché tu ami i particolari estrosi, le diceva scherzando, e quindi anche nel nome puoi avere solo qualcosa da aggiungere e non da togliere.
Ora ricordava i dettagli di quella tempestosa riunione di quasi un anno prima e del litigio che ne era seguito; ricordava anche che il giorno dopo tutto era stato dimenticato, almeno da parte sua. Quel progetto era stato poi completato con successo, senza le variazioni aborrite da lui ma grazie alla capacità persuasiva di lei.
Accese un’altra sigaretta e rilesse alcuni passaggi dello scritto. C’erano tanti elementi su cui riflettere e, quasi involontariamente, formulò una giustificazione come se lui fosse lì a guardarla con la solita aria interrogativa.
Non sapevo, provò a dire a se stessa, non immaginavo.
Ma davvero non ne aveva alcuna cognizione? La spiegazione le suonò falsa ancor prima di terminare il pensiero.
Quando era cambiato l’atteggiamento di Alessandro nei suoi confronti? Quando i suoi sentimenti si erano trasformati? E quando lei aveva indossato per la prima volta quella’armatura cinico-umoristica che adesso le pesava così tanto?
Cercò una risposta qualsiasi nelle altre buste sparse sulla scrivania pur sapendo che difficilmente ne avrebbe trovata una soddisfacente, soprattutto all’ultima domanda.
Ne scelse una contraddistinta con una lettera C ma si accorse poi che ce n’era un’altra uguale. Qualcosa dovevano pur significare ma ora proprio non aveva voglia di perdersi in altri rebus.
Questa volta la busta conteneva soltanto due piccoli fogli quadrati strappati via da quei blocchi per appunti da scrivania; entrambi erano senza data e senza firma.
Sul primo lesse “Spero che questo libro possa farti ritrovare il buonumore o, almeno, rasserenarti un po’. Spero che la tua nuova stanza ti piaccia e che tu non sia allergica anche a questi fiori. Spero che…”.
A quale libro si riferiva? Così di primo acchito non riusciva a ricordare; del resto Alessandro gliene aveva regalati talmente tanti di libri. Libri, fiori, oggetti personali. Per la verità lei si era anche chiesta il perché di alcune ricorrenti attenzioni ma poi, sentendosene gratificata più che incuriosita, aveva preferito trascurarne le motivazioni allo stesso modo in cui ignorava le occhiate pettegole delle segretarie.
Si alzò dalla poltrona e si accostò alla finestra grande quanto tutta la parete; giù in strada, però, non c’era quasi più nessuno ed alcune auto ferme ad un semaforo erano una ben misera distrazione.
In realtà, dovette ammettere mentre giocava con il riflesso del suo profilo, non aveva mai fatto domande perché non voleva conoscere le risposte. Perché non sentiva di essere interessata. Ma poi era davvero così?
Smise di arrotolare nelle mani l’altro biglietto e lo dispiegò.
“Sono contento tu sia tornata. L’ufficio non è più lo stesso quando non ci sei”.
Lei questi messaggi non li aveva mai visti prima, mai avuti, mai letti.
Prese una busta sottile con sopra la lettera R; anche questa doveva contenere un breve pensiero. Su un Post-it arancione, infatti, c’era scritta solo una frase: “Se non intuissi già la tua risposta avrei il coraggio di dirti ciò che sei per me. Auguri”. Auguri per cosa? Auguri per quando?
Perché scrivere e poi chiudersi in un cassetto?
Perché dissimulare un bel gesto? Perché nascondersi?
[continua... forse]

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