mercoledì 29 ottobre 2008

"Fuori da un evidente destino" di Giorgio Faletti

Il volume è rimasto sul quarto scaffale della libreria per quasi due anni. Come l’appunto di un impegno che non si riesce mai a portare a termine; come quella telefonata da fare ad un amico che però - anche se non lo chiami subito - sai che non ti porterà rancore.
Poi, dopo che la chiamata l’hai fatta, capisci che ne è valsa la pena e che quell’amico ha saputo raccontarti ancora una storia interessante.
Fatta questa breve (inutile) premessa resta da dire che nel libro c’è una storia, anzi una Bella Storia. Una fiaba per quel fanciullino che dovrebbe essere ancora vivo, da qualche parte dentro di noi.
Ciò non significa che la realtà contemporanea sia estranea al romanzo; semplicemente l’autore non la pone al centro della narrazione ma piuttosto la utilizza al fine di evidenziare un concetto semplice ed utopistico: il futuro sarà un posto migliore se avremo fatto pace col passato.
L’oggi diventa un pretesto per ritornare a ieri – quello dei singoli personaggi ma anche quello inteso come trascorso storico – cercando di ritrovare, proprio come possiamo immaginare farebbe un nativo americano, la pista smarrita o almeno ricordare il momento in cui la si è persa.
In questo viaggio fantastico ci si porta appresso una bisaccia piena dei soliti affanni – il desiderio di libertà piuttosto che l’amore incondizionato, la cupidigia assoluta oppure la malvagità più bieca - solo per avere la conferma che questi da sempre sono il motore che muove il mondo e le altre cose.
La madre Terra intanto, più o meno pazientemente, sopporta il passaggio di tutti quanti noi; di coloro che cercano di sfuggirle (come il protagonista che infatti si rifugia nel volo), di quelli che provano ad abusarne (come l’ignobile speculatore), dei bambini che ne sono allegramente ignari o, infine, degli animali che solo in apparenza ne sono inconsapevoli (come quei cani che non abbaiano mai…).
Insomma metafora e sintesi delle umane storie – quelle vere e quelle leggendarie – inserita in una cornice così affascinante da farti venire voglia di rivedere quegli stessi paesaggi in qualche classico western.
Così mi ritrovo al tramonto, da qualche parte nel deserto rosso dell’Arizona, mentre un vecchio navajo sta cercando di spiegarmi che… le persone non cambiano. Ma a volte si ritrovano.
E alla fine credo che abbia ragione lui.

venerdì 24 ottobre 2008

Ti ricordi di me? - cinque

Per un attimo non so come replicare e lascio che le tue parole trovino un loro posto nell’aria della stanza, come fossero frammenti da incastrare da qualche parte tra di noi.
Ho la gola secca e bevo un sorso di vino per necessità più che per desiderio. Attraverso il bicchiere vedo la tua immagine leggermente distorta ed è come se ti guardassi per la prima volta da quando sei entrata.
Indossi un abito nero di maglina con uno scollo tondo ed un motivo a piccoli graffiti bianchi che non riesco a indovinare; ricordo questo vestito che disegna ogni centimetro del tuo corpo e, arrendendomi all’evidenza, posso solo ammettere che sei bellissima.
Sarà per contrappunto a questa mia rinnovata debolezza che sento le parole uscirmi dalla bocca come un taglio di rasoio.
«Non ti capisco Anna, non ti credo! Hai sempre fatto girare il mondo a tuo piacere ed ora ti aspetti che mi faccia bastare questa risposta?»
«Ma è la verità, credevo di poter fare a meno dei sentimenti.»
«Credevi di poterne fare a meno con me! Lui dov’è?» Mentre te lo chiedo impazzisco al pensiero che qualcun altro possa aver avuto ciò che a me è stato sempre negato.
«Non c’è nessun lui», ma stai mentendo.
«Non più almeno» e questa già assomiglia ad una mezza verità.
«Che è successo, hai modificato il tuo progetto di vita? Oppure l’ha cambiato lui? Ammesso che ne abbia mai avuto uno che comprendesse anche te!»
Hai ripreso a fissarmi in silenzio e questa volta il tuo sguardo è freddo ed incolore. Forse ho esagerato ma più che altro la mia è stata una perfidia inutile perché tanto non saprò mai la verità.
«Io sono venuta qui, ci sto provando. Dammi tregua.»
«Stai provando a far cosa?»
«Non lo so. Mi sembra sia rimasto un nodo da qualche parte alle mie spalle. Vorrei capire se devo stringerlo o scioglierlo per sempre.»
Taccio ma per come mi sento anche la metafora di qualcosa di indefinito che ci lega mi sembra un tormento cui non mi è possibile rinunciare.
«Stavo cercando… sto cercando di fare pulizia nella mia vita e ci sei andato di mezzo anche tu.»
«Sapere che non ce l’avevi con me personalmente mi fa sentire meglio». Battuta fiacca lo so, stasera invece il pubblico è esigente.
«Anche tu hai fatto le tue scelte e…»
«Certo ma…», la replica non mi riesce e forse è meglio così.
«Aspetta, fammi finire. Anche tu hai commesso errori o, comunque, preso decisioni discutibili. Ora hai scelto la parte della vittima solo perché è più comodo così.»
In realtà entrambi abbiamo usato tutti i ruoli disponibili e lo abbiamo fatto credendo di essere tanto bravi dal non farci male nei vari cambi d’abito che la vita ci ha richiesto.
Non mi sento una vittima se non di me stesso ma i fatti hanno ampiamente dimostrato quale attore incapace io sia.
«Anna dovevi solo dirmi che mi amavi oppure che non era così. Niente più di questo. Qualunque cosa avessi detto sarebbe stata comunque un punto di partenza, in una direzione o nell’altra.»
Non so neppure perché ti sto raccontando pensieri incontrati nel buio di molte notti insonni.
«Qualunque cosa sarebbe stata meglio di saluti frettolosi, messaggi scarabocchiati sulla tastiera di un annoiato cellulare o interminabili silenzi.»
Davvero non so dove ho trovato l’energia per arrivare fin qui ma ormai stiamo raggiungendo il capolinea.
«Invece così hai finito col negarmi tutto. Amore, amicizia, tutto!»
«La verità è che abbiamo perso tempo e il tempo alla fine si è vendicato». Te lo concedo, almeno su una cosa siamo d’accordo. Ma c’è dell’altro e tanto vale che te lo dica.
«La verità è che ti sei lasciata governare dall’orgoglio con la stessa stupidità con cui un uomo si fa comandare dal suo uccello.»
«Non ricordavo quanto fossi…»
«Per le decisioni che ho preso sono colpevole io e non l’ho mai negato; per quelle che non ho preso la responsabilità invece è tua. Anche se non vorrai ammetterlo mai!»
«…stronzo.».
«Ed io quanto fossi infida e… bella.»
«Hai parlato sempre al passato, non sei più innamorato di me?»
«Anna…», la mia espressione, per quanto sorpresa, deve essere abbastanza eloquente.
«…vaffanculo. Si, hai ragione, me lo sono cercato.»
Ma stai sorridendo e nonostante tutto lo sto facendo anch’io.
E il mio sorriso si congela nell’istante in cui ti avvicini così tanto che riesco a sentire l’odore della tua pelle.
Ti guardo mentre tu mi guardi e nei tuoi occhi posso sempre e solo perdermi; prima di smarrire la strada ho bisogno di chiedertelo ancora: «Che cosa provi per me?»
La tua risposta, perfetta eppure inutile, è un bacio.
La tua bocca trova la mia giusto in tempo per rubarle le parole.
Come se avessero memoria le labbra da sole sanno dove andare e cosa fare, come se riconoscessero ciò che è stato in ciò che ancora è.
I nostri baci semplicemente sono eterni.
Le mani si cercano e le dita si incrociano senza richiudersi le une sulle altre; i palmi si distendono a liberare una tensione non esprimibile altrimenti. Il nostro modo di toccarci, indelebile come un tatuaggio.
Non so quello che provi e mi aggrappo ad un presente ambiguo per la paura di saperlo o col timore di non scoprirlo più.
Intanto respiro il tuo respiro e mi convinco che baciarti sia la risposta ad un milione di domande.

mercoledì 22 ottobre 2008

Ti ricordi di me? - quattro

Sono deciso a distruggere - senza leggerlo - il nuovo messaggio che troverò ma non sono preparato a ciò che mi aspetta quando apro la porta.
Sulla soglia ci sei tu che mi guardi ed accenni un sorriso.
Non mi capacito di trovarti qui davanti per tanti motivi, non ultimo perché fino a un attimo fa stavo parlando con te nell’apparente tranquillità della mia solitudine.
La musica si sente fin qui e vorrei averla spenta perché la colonna sonora non mi pare adatta al momento.
Resto immobile e so di non avere un’espressione brillante mentre noto che anche quel bastardo del bulldog ora tace ai tuoi piedi.
«Ti ricordi di me?». Sei in scena da cinque secondi e ti sei già presa la battuta migliore.
«Si… abbastanza». E con questa so di essere stato bocciato al corso di improvvisazione.
«Ho pensato su quel foglio non ci fosse altro spazio da riempire e preferisco non cominciarne un altro
«Già… Vuoi entrare?»
«Pensavo non me l’avresti chiesto» e intanto ti avvii con disinvoltura in una casa che conoscevi bene.
Mi sento confuso e stupido. Se questa fosse una partita di pallone le squadre sarebbero ancora negli spogliatoi ed io sarei già sotto di un gol.
Abbasso il volume dello stereo e ti raggiungo in cucina mentre ti guardi intorno alla ricerca di ben poche novità.
«Ancora Ikea?», stai indicando un orologio alla parete.
Faccio si con un cenno del capo perché è più semplice che parlare ma mi domando se ora inizieremo a chiacchierare anche del clima.
«Me ne offri un goccio?»
Prendo un bicchiere e verso quanto basta reggendolo solo per lo stelo, come mi hanno insegnato. Ora però non ne posso più!
«Che vuoi Anna?», la voce è un po’ strozzata ma almeno sono riuscito a chiedertelo; per la verità la domanda originaria era che cazzo vuoi e cosa ci fai di nuovo nella mia casa.
Prevedibilmente osservi il silenzio e continui a fissarmi con uno sguardo cui non so dare un nome né un significato.
Che poi – penso mentre bevi il rosso del mio vino che si stempera su quello delle tue labbra – non so neppure perché te l’ho chiesto dato che non potrò credere a nulla di ciò che dirai.
Forse è meglio il silenzio perché almeno ai tuoi mutismi sono abituato; se invece adesso dici una cosa sbagliata non so immaginare come finirà.
«Volevo vederti… parlare un po’... di noi». Ecco, appunto.
«Noi è un pronome che tu stessa hai cancellato dal vocabolario!»
«Perché hai scritto quelle cose? Le pensi davvero? Sul serio credi possa scordarmi di te?»
«Non lo so perché l’ho fatto e, se è per questo, non so neppure perché ho risposto al tuo biglietto… Ma quello che penso io non ha importanza, non l’ha mai avuta». Mi sento già stanchissimo e questa conversazione mi sembra un’inutile crudeltà.
«Non è vero e lo sai.»
«Io non so niente, io non so un cazzo di niente. Io non ho mai saputo quello che ti passava realmente per la testa! Questa è l’unica certezza che ho.»
«Tu sai che non è così.»
Mentre lo dici non mi guardi ed anche questo dettaglio mi ricorda sensazioni spiacevoli che vorrei disperatamente dimenticare.
«Quello che so è che la donna di cui ero innamorato se n’è andata con un colpo di telefono perché non valevo neppure il disturbo di un incontro. Quello che so è che prima ancora non ha mai trovato il modo di dirmi cosa provasse per me.»
Stai per dire qualcosa ma nell’impeto ti anticipo e nel farlo sono già pentito perché temo che dopo non parlerai più.
«E so anche che quella donna è riuscita a lasciarmi senza neppure essere costretta a dirlo… Maledizione, neppure quello hai fatto, ché le parole ho finito col dirmele da solo mentre in sottofondo c’era soltanto il tuo silenzio!»
«Non potevo fare diversamente allora.»
«Stronzate. Cosa non potevi fare? Non potevi rimanere oppure non potevi dirmi dei tuoi sentimenti?»
Silenzio e occhi bassi. Per qualsiasi altra persona al mondo questo atteggiamento sarebbe un’ammissione di responsabilità ma - ormai lo so bene - nel tuo caso stai solo cercando una via d’uscita; magari ti stai anche incazzando perché ti senti messa all’angolo.
«Rispondimi, per favore. Ho bisogno di saperlo, Anna,
è un mio diritto saperlo, cazzo!»
«Diritto? Ma che vuol…»
«Come puoi essere così arrogante? Come fai a non capire che è importante? Quando si è innamorati certe parole vanno dette… certe carezze vanno fatte… certi momenti devono essere vissuti.»
«Ma…»
«Dopo puoi correggere quelle parole, puoi chiarire le situazioni, puoi perfino riprenderti indietro i gesti come se non li avessi mai compiuti… Quando ti accorgi di esserti sbagliata puoi sempre ripensarci e nessuno potrà farci niente.»
Ho paura di venirti vicino ma è come se l’altro lato del tavolo fosse troppo distante per farti sentire ciò che ho dentro.
«Ho il diritto di sapere perché non mi hai concesso niente. Non so se mi hai amato e non so quando hai smesso di farlo. Con i tuoi silenzi hai finito col negare la nostra stessa esistenza e certe volte mi pare di essermi immaginato tutto!»
Mi tremano un po’ le mani mentre ti sollevo il viso e ritrovo la setosità della tua pelle come si ritrovano i bei ricordi.
«Mi hai cancellato ed io non so neppure se sono mai stato reale.»
Ho voglia di guardarti ed ho bisogno che tu guardi me.
«Perché non mi hai mai detto cosa sentivi per me?»
«Perché non lo so fare, cazzo, non lo so fare», hai gli occhi lucidi di lacrime che ancora non ci sono e la voce un po’ alterata. «Non ne sono capace o almeno pensavo di non esserlo, pensavo di poterne fare a meno.»
[continua... forse]

lunedì 20 ottobre 2008

Ti ricordi di me? - tre

Ho fatto tutto ciò che dovevo. Come uno bravo scolaro, fin dal risveglio, ho finito in bella copia tutti i compiti assegnati.
Sono andato a correre sul lungo lago che era presto e la foschia del mattino teneva ancora testa alla luce del sole; ho anche incontrato quella ragazza con cui non sono mai riuscito a scambiare più di un saluto ed un sorriso.
In ufficio sono stato di un’efficienza esemplare tutto il giorno, diligentemente concentrato persino nel difficilissimo compito di fotocopiare documenti e collazionare fascicoli.
Mi sono obbligato a non pensare e, ancora di più, a non speculare inutilmente su avvenimenti completamente al di fuori del mio controllo.
Qualunque cosa, insomma, pur di rimandare a data da destinarsi un inesorabile confronto con inconfessate aspettative.
Ora sto tornando a casa con le mani ingombre dai sacchetti della spesa e, mentre attraverso velocemente l’atrio comune ai due edifici, sento che la borsa più pesante sta cedendo pericolosamente.
Mi sono regalato un’altra bottiglia tra quelle di cui ho sentito parlare a lezione, anche se non ho alcuna intenzione di accompagnarla con il ricco abbinamento culinario consigliato. Un po’ di Asiago stagionato e pane pugliese saranno una cena più che onorevole.
Mentre l’ascensore arriva continuo a ripetermi che non accadrà nulla e che non c’è niente per cui valga la pena agitarsi; ora che lo specchio mi tiene compagnia fino al sesto piano posso finalmente ammettere che in parte mi sono preso in giro tutto il giorno.
Così, ostentando un’indifferenza che non ho, mi ritrovo a fissare il bulldog steso sul pavimento che fa la guardia ad un pezzo di carta infilato sotto lo zerbino, giusto all’altezza del suo muso.
Più che sperarlo ho temuto questo momento perché so di essere del tutto impreparato all’incalzare degli eventi.
Dopo aver aperto la porta tiro su il biglietto e mi lascio alle spalle inquietudini vecchie per affrontare preoccupazioni nuove.
Il foglio bianco ripiegato – che riconosco essere lo stesso di ieri – ora si trova sulla penisola in cucina ed è un invito difficile da ignorare.
Nel forno stanno tostando due grosse fette di pane, l’aroma forte del formaggio riempie la stanza ed il vino si sta lentamente ossigenando.
Più che un invito è una provocazione e come tale voglio considerarla prendendomi il lusso di procrastinare ancora un po’ l’inevitabile.
Con eccessiva attenzione scelgo il bicchiere più adatto tra i pochi che posseggo - questa sera non ho intenzione di romperne un altro – e poi verso il vino soffermandomi sui riflessi e sul profumo.
Nel lettore metto su Kisses in the rain di Rick Braun attivando le funzioni random e repeat all; che è un po’ come dire al mio Sam immaginario suona quello che ti pare ma stasera non lasciarmi solo.
La tromba inizia a fare il suo lavoro e a me tocca fingermi determinato. Torno in cucina ed apro il biglietto.
In qualche modo ha trovato lo spazio per aggiungere nuove parole a quello che ci siamo già scritti ma la grafia adesso è più disordinata. Mi occorre un minuto per riuscire a leggere il tutto senza confonderlo con le frasi precedenti; me ne serve qualcuno in più per realizzare che ha davvero scritto ciò vedo.
Mi spiace che il tuo pensiero nei miei confronti sia così negativo... non è vero che quello che dici o scrivi per me non conta... sai benissimo, da sempre, che non è mai stato così...
Inoltre mi ferisce profondamente se ancora una volta leggo che non sai come comportarti con me...
Mi auguro di rivederti presto...
Questa volta neppure un sorso generoso riesce a riempire il vuoto che mi sento dentro e il vino mi sembra amaro e inconsistente.
Se il compatirsi avesse un peso specifico adesso il mio sarebbe superiore a quello dell’uranio ed io ne sarei meritatamente schiacciato.
Rileggo le sue parole senza comprenderne il senso ed anche le mie ora mi sembrano, una volta di più, inutili; con rabbia mi chiedo come ho fatto a crederci di nuovo.
I musicisti sembrano aver capito che aria tira e attaccano il terzo brano del cd, con un titolo quanto mai profetico.
Come può dire che sono io a ferirla profondamente? La nostra storia, tutto ciò che è accaduto, è prova del contrario. Non si tratta di un pensiero negativo, Anna, ma è la realtà di ciò che è stato, di ciò che ancora è nonostante il tempo sia passato.
Da quando ha importanza ciò che penso? Che neppure a dire ti amo sono riuscito a interessarti quel tanto che bastava per averne una risposta, una qualunque.
E poi c’è quell’augurio di rivederci presto, come se le nostre vite fossero ancora comunicanti e la distanza che separa due rampe di scale non fosse ormai incolmabile.
Se sapessi farlo romperei qualcosa solo per sfogarmi un po’ ma sono consapevole di essere mediocre pure in questo e so quanto invece le piacciano temperamenti più impetuosi e travolgenti.
Il cane, intanto, sta abbaiando un’altra volta.
[continua... forse]

sabato 18 ottobre 2008

“Ultima sentenza” di John Grisham

Dopo aver letto “Il socio” (1991) – ma anche “Il rapporto Pelican” (1992), “L’uomo della pioggia” (1995) o “La giuria” (1996), solo per citare alcuni dei suoi tanti legal thriller, tutti editi da Mondadori – non avrei mai pensato di inserire nella stessa frase le parole Grisham, libro e noia.
Eppure questa volta è così ma, sia chiaro, lo dico con dispiacere.
Tutto è relativo s’intende però, a paragone dei titoli precedenti, la storia narrata in quest’ultimo romanzo mi sembra conduca il lettore su un percorso forse non brutto ma sostanzialmente inutile.
Come percorrere una strada panoramica in una giornata di nebbia: il paesaggio circostante non lo vedremo mai.
Naturalmente non sono in discussione lo stile, la tecnica narrativa o la caratterizzazione (seppure a tratti migliorabile) dei personaggi.
Piuttosto è l’intero impianto dell’opera a soffrire della presenza di tanti, troppi, stereotipi; alcuni dei quali peraltro già presenti in altre opere dello stesso autore.
I poveri (questa volta nel senso letterale del termine) avvocati paladini della giustizia. La corrotta multinazionale che ha inquinato, truffato, corrotto e ucciso. Un verdetto favorevole ai primi da ribaltare a tutti i costi in appello.
Nel mezzo qualche centinaio di pagine – poco legal e molto political, se così si può dire – che indottrinano il lettore sui perversi meccanismi del sistema giudiziario statunitense.
Il tutto passando attraverso il marketing elettorale e la onnipresente attività di lobbying che è l’unica vera responsabile, nel bene e nel male, di qualunque decisione politica o amministrativa del governo americano.
Materia per un saggio di fine semestre alla facoltà di scienze politiche ma per un romanzo con ben altre ambizioni, scritto dall’autore giustamente più celebrato del genere, decisamente è un po’ poco.
Con sorpresa durante la lettura ti trovi a chiedere alla foto che è in quarta di copertina dove si vuole andare a parare; lo sguardo dell’ex avvocato di Southaven, però, questa volta è fintamente rassicurante, forse per dovere di difesa nei confronti del suo cliente preferito.
Per fortuna manca l’happy end perché sarebbe stata la classica goccia in un vaso già colmo di ovvietà.

giovedì 16 ottobre 2008

Ti ricordi di me? - due

Sono trascorsi sei mesi dalla telefonata di cui fa cenno nel biglietto; faccio mentalmente il conto mentre cerco di accendermi una Marlboro nell’aria fredda di questa sera.
Da allora non l’ho più cercata e naturalmente lei non ha cercato me; meglio ancora, io non ho più avuto la forza di inseguirla e lei non aveva alcun motivo per farlo.
La brace si consuma in fretta, una boccata la tiro io ed un’altra la porta via il vento. Anche questo momento durerà poco, penso con rinnovato disfattismo.
La telefonata, in un pomeriggio di fine estate, non era stata una conversazione ma un assalto condotto allo scopo di demolire tutto ciò che poteva esserlo in una relazione: stima, considerazione, amicizia, amore. E l’elenco potrebbe continuare ancora.
Avevo provato a replicare ma era stato anche peggio; al colmo della frustrazione avevo urlato anch’io ma lei aveva riso della mia rabbia. Quando avevo fatto le mie domande dall’altra parte c’era stato il solito agghiacciante silenzio.
Quel giorno, per motivi che solo lei conosce e che io mi sono dannato ad immaginare, aveva semplicemente deciso di distruggere qualcuno ed era soltanto arrivato il mio turno.
Probabilmente perché, per iniziare una nuova vita e un nuovo amore, è più facile lasciarsi alle spalle detriti che, per loro stessa natura, non possono tenerti legato e non rappresentano una valida ragione per guardarsi indietro.
«E fanculo se si tratta delle macerie di un uomo che ti ama, vero Anna?», domando inutilmente ad una pianta di geranio che potrebbe partecipare ad un esperimento sulla mummificazione.
Ho freddo ma mi sforzo di restare fuori ancora un po’ anche se la sigaretta è finita ed i miei pensieri non mi hanno portato da nessuna parte. In casa c’è quel biglietto che mi attrae e mi respinge quasi fosse un magnete impazzito, esattamente come colei che l’ha scritto.
Sappi che ti ho pensato. Mi auguro di vederti presto...
Oltre l’intrinseca sorpresa del messaggio ci sono quelle frasi a rendermi ancora più ansioso. Che significato ha – detto da lei – ti ho pensato? Come può augurarsi di vedermi presto e soprattutto perché?
Che cos’altro può volere dato che non c’è rimasto molto da distruggere della mia malferma personalità?
Rientrando in casa mi assale il sentore del vino sparso intorno al divano così mi ricordo che pulire e mettere in ordine è una delle mie attività preferite quando sono nervoso. L’altra è correre ma di fare jogging alle undici di sera in pieno inverno non se ne parla.
C’è un altro particolare che mi inquieta e che, con un’ennesima domanda, metto a fuoco soltanto ora. Perché portarmi un biglietto e non inviarmi un sms, una mail o qualsiasi altra forma di comunicazione mediata?
Considerando che abitiamo nello stesso stabile – Piazza della Rovere 10, lei al quarto piano scala A, io due piani più su scala B – riuscire a non incontrarci in tutto questo tempo è stato un miracolo di casualità e pianificazione, quest’ultima almeno da parte mia.
In linea retta, a scavare un tunnel tra il mio ed il suo appartamento, non ci sono più di trenta metri.
Venire fino alla mia porta è stato di per sé un messaggio il cui esatto significato mi sfugge anche se intuisco che vuol essere importante non meno di ciò che ha scritto.
Riempio un altro bicchiere fino alla sua metà restando a guardare in controluce la tensione che si crea sulla superficie del liquido racchiuso tra le pareti di vetro.
Prendo una decisione e bevo un lungo sorso facendomene riscaldare e traendone una baldanza che un attimo fa non avevo.
Il biglietto è ancora sul divano e c’è dello spazio da riempire intorno alle sue frasi tondeggianti; mi serve una penna che fatico a trovare ed ho bisogno di un minimo di lucidità per non apparire a lei più ridicolo di quanto non mi senta io.
Ti ricordi di me? Ne sono davvero sorpreso!
Ho letto ciò che scrivi ma l'unica risposta che so darti è che ormai ho paura di dire qualunque cosa.
Anche perché, sono certo mi comprenderai, so bene a quanto poco servano le mie parole, comprese quelle che ti sto scrivendo proprio in questo momento!
Senza polemica, senza rancore e senza l'intento nascosto di provocare una tua reazione. Semplicemente è stata una lezione molto dolorosa; mettere nero su bianco serve a ricordamene!
Ho esagerato oppure è troppo poco? Le parole avevano nella mia testa un suono migliore di quanto non mi appaia mentre le rileggo; il sarcasmo non ha mai fatto parte mio repertorio e, comunque, non ho mai saputo esibirlo con lei.
Nel vino che resta in fondo al calice trovo l’incoraggiamento per riportare il biglietto al mittente ma, ne sono più che consapevole, so di commettere l’ennesimo sbaglio della mia vita.
[continua... forse]

martedì 14 ottobre 2008

Ti ricordi di me?

Il ripetuto abbaiare del cane mi fa capire che c’è qualcuno vicino la porta di casa.
Ma io non posseggo un cane e il suono in realtà proviene da uno stupido zerbino che mi hanno regalato per il compleanno e che di malavoglia ho dovuto posizionare sul pianerottolo per non offendere mia sorella.
Sopra vi è raffigurato un bulldog da cartone animato e c’è una scritta fintamente minacciosa che dovrebbe far sorridere gli ospiti in arrivo; ma il vero punto di forza della piccola stuoia in cocco è la presenza di un sensore che, attivato dal peso della persona, mette in azione il latrato del finto guardiano a quatto zampe.
Mentre raggiungo l’ingresso mi rendo conto che l’abbaio è terminato già da qualche secondo; la qual cosa significa che il visitatore deve essersi posizionato al di là del tappetino e probabilmente ora sta ridendo del padrone di casa.
Poi considero che il campanello non ha suonato e non ho sentito bussare; la cosa mi incuriosisce alquanto.
Guardo con circospezione dallo spioncino senza accendere la luce all’interno e non vedo nessuno; la porta dei miei dirimpettai è chiusa e del resto a quest’ora della sera non sono mai in giro.
Chiunque abbia calpestato il mio zerbino adesso non c’è più oppure non c’è mai stato ed il simpatico dispositivo elettronico cinese per fortuna si sta guastando.
Apro solo per avere la conferma diretta che non c’è nessuno e non sento neppure alcun rumore per le scale.
Pregustando il ritorno alla mia malinconica serata mi chiudo la porta alle spalle per riaprirla un attimo dopo perchè qualcosa di indefinito ha attirato la mia attenzione e voglio scoprire di cosa si tratta.
Quello che ora vedo spuntare da sotto il tappetino prima non c’era.
Al rientro, se ci fosse stato, mi sarei accorto di questo cartoncino bianco, chiuso con un pezzo di nastro adesivo, senza busta e privo di mittente che sto raccogliendo proprio in questo momento.
Normalmente non sono una persona curiosa e in vita mia quando lo sono stato gli eventi me ne hanno fatto subito pentire.
Però - rifletto mentre mi dirigo verso la cucina dove stavo stappando una bottiglia di Primitivo Shahrazad del 2005 – non ho niente di meglio da fare e soprattutto non riesco ad immaginare chi possa essere interessato ad interrompere il mio monotono isolamento.
Lascio il vino a respirare e recupero un calice di medie dimensioni abbastanza ampio da consentire un'adeguata ossigenazione e lo sviluppo degli aromi complessi e terziari; inoltre la forma del bicchiere – ripeto a mente come fosse una lezione – dovrà servire a stimolare principalmente le parti interne della bocca ed evitare il contatto astringente dei tannini con le gengive.
Frequentare un corso di enologia è stata la vera novità della mia vita da vari mesi ad oggi, cosicché è l’unica cosa di cui posso sentirmi vagamente fiero.
Respiro il profumo del vino nel bicchiere, brindo ad un ospite che non c’è e mentre ne lascio scorrere sul palato un breve sorso mi siedo sul divano e prendo l’anonimo biglietto.
Aprirlo e leggerlo è un attimo, morirci dentro anche!
Dopo la telefonata... forse avrei dovuto prevedere che non ci saremmo visti per un po’... Sappi che ti ho pensato.
Spero solo che tu stia meglio di quanto io non senta...
Mi auguro di vederti presto...
Ovunque tu sia in questo momento... mi auguro giunga a te il mio pensiero...
La grafia è inconfondibile e la firma, se ci fosse, sarebbe inutile.
Lo rileggo quasi sperando che quelle parole scompaiano come se fossero scritte con l’inchiostro simpatico; invece restano lì a ricordarmi che nascondersi a se stessi è un gioco inutile.
Ma soprattutto quelle frasi scritte in blu mi ricordano di te, che non ti ho dimenticata anzi – poiché scordarmi di te non potrei – mi rammentano quanto puoi far male.
Cerco di alzarmi perché non riesco più a stare fermo ma, nel far leva su un bracciolo, maldestramente faccio volare il bicchiere sul pavimento che ora ospita schegge di vetro e frammenti della mia serata affogati in vino barricato quindici mesi.
Pulirò dopo, ora ho bisogno di una sigaretta per pensare cosicchè esco sul piccolo terrazzo ingombro di piante secche ed attrezzi sportivi inutilizzati.
[continua... forse]

domenica 12 ottobre 2008

Bianco e nero

Scompongo i miei pensieri
e sola resti tu,
sospesa con i gesti e gli occhi grandi
sgranati su una foto
in bianco e nero.

Io sono quell'ombra
nascosta tra le altre,
quel nome che ti era familiare,
sono quel punto
perduto sullo sfondo
anzi di più,
son meno di un ricordo.

venerdì 10 ottobre 2008

Sta andando tutto bene - tre

Per quanto possa conoscere la città – non ci ho mai vissuto però l’ho frequentata spesso – non saprei ripetere il percorso del tassista e non so dire com’è che siamo arrivati e lui mi sta invitando a scendere. Più che nelle strade mi sono perso nei miei pensieri.
Il prezzo della corsa mi sembra perfino troppo basso così arrotondo alla decina superiore e il mio interlocutore capisce definitivamente che non devo essere molto lucido. Per di più scendendo dall’auto incespico nel montante della cintura di sicurezza anteriore e mi ritrovo quasi in ginocchio sul marciapiede.
Non so se ridere o imprecare ma scelgo la prima ipotesi quando vedo il numero civico dall’altra parte della strada. Sono arrivato davvero.
Mentre mi appresto a citofonare maledico le mia limitata spigliatezza perché so già che non mi riuscirà fingermi disinvolto. Inoltre dovrei mentire sulla ragione del mio viaggio – qualcosa del tipo “Che ci fai qui? Niente, avevo un impegno di lavoro e ti ho fatto una sorpresa” – ma le ci vorranno circa quindici secondi a smascherarmi.
L’ultima volta che le ho detto una bugia mi ha scoperto talmente in fretta che, ridendo, ha rinunciato ad arrabbiarsi e poi mi ha obbligato a pagare pegno. Opium di Saint Laurent, 75 ml, parfum non eau de toilette, non so se mi spiego!
Suono una, due volte, smetto di respirare e aspetto.
A rispondere è Danica, la ragazza serba con cui divide un appartamento troppo piccolo anche per una persona sola.
Sento di avere le funzioni cerebrali rallentate e sono costretto a ripetermi a mente ciò che mi sta dicendo tra lo stridio dell’altoparlante. No, non c’è. Si, aveva un impegno. Si, torna tra poco. Voglio salire?
No, grazie, aspetto giù. Magari faccio un giro”. Quest’ultima frase la pronuncio mentre con un poderoso sforzo di volontà ricorro al mio mantra personale e comincio a salmodiare ritmicamente aum-va-tutto-bene–aum.
Di tempo ne ho perso pure troppo, sotto ogni punto di vista, ed ora col tempo di un’attesa dovrò ancora confrontarmi.
Così compro un quotidiano che non leggerò e seduto in uno Starbucks lì vicino, per curiosità più che per desiderio, ordino un caffè americano che non finirò mai. Da dove sono seduto non riesco più a vedere il portone e la tensione fa sì che la pausa ristoro termini velocemente.
Stupiscila, consiglia uno slogan posto di traverso sulla fiancata di un autobus che mi passa davanti; la bellissima bionda fotografata effettivamente sembra stupita del brillante che adorna il suo anulare sinistro.
Stupiscila, mi ripeto molto più umilmente mentre mi avvio verso quel fioraio che so trovarsi dietro l’angolo.
Il tempo di scrivere due righe – da anni, per gioco, sempre le stesse – su un anonimo cartoncino ed un fascio dei suoi fiori preferiti è già pronto per esserle recapitato. So che il tizio alla cassa, dopo aver letto l’indirizzo, vorrebbe chiedermi perché non li porto via io ma con quello che costa la consegna a domicilio reputa più saggio farsi gli affari propri.
Torno davanti al palazzo e mi apposto dall’altra parte della strada ad aspettare ed a fare astruse congetture sulla strategia e sui vantaggi reali di una buona organizzazione. Mi viene in mente un assioma del famigerato capitano Malvasi durante la naja: piegarsi, adattarsi, raggiungere lo scopo.
Che poi è quello che sto facendo, o almeno ci sto provando. Nella testa, però, mi rimbomba ancora la voce del comandante di compagnia: non esiste provare, esiste solo riuscire.
Mi accorgo del garzone di bottega che sta uscendo dal portone a mani vuote. Anche lui mi vede e gli pare opportuno urlarmi sopra al traffico, a beneficio dell’intero rione, che su in casa non c’è nessuno e che i fiori li ha lasciati dietro la porta.
La coinquilina deve essere uscita e a me pare che la situazione vada alquanto complicandosi. Avrò diritto di pensare che forse, diciamo forse, non sta andando proprio tutto per il verso giusto?
Poi considero che ben altro potrebbe andare storto e mi rassegno a credere che il fantomatico bicchiere sia ancora mezzo pieno.
In questo modo trascorrono altri venti lunghissimi minuti e poi il tempo si ferma. Anche il traffico si ferma, anche i passanti, i rumori, gli odori, i pensieri si fermano.
Lei arriva dalla circonvallazione interna e riesce a trovare un parcheggio al primo tentativo. Scende trafelata dall’auto e si avvia a passo veloce verso casa; non si accorge di me, non si guarda neppure intorno anche perché sta parlando concitatamente al telefono. Sembra aver fretta.
Resto a guardare quei suoi trenta passi sul marciapiede e penso solo a quanto è bella. Poi, in rapida successione, rimugino su una moltitudine di altre cose ma su tutte prevale quel primo pensiero. Per me è bellissima.
Ed ora non mi resta che tirare il fiato ancora un po’. Tra un momento troverà i fiori sull’uscio, leggerà il biglietto e saprà che sono qui ad aspettarla; magari l’amica le ha lasciato un messaggio, magari si affaccia subito e mi vede, magari mi telefona, magari mi corre incontro, mi guarda, capisce tutto e ridiamo insieme di tutto il tempo perso… magari…
Magari non accade niente di tutto quello che ho pensato e quasi un quarto d’ora dopo me ne devo pur fare una ragione.
Non riesco a capire cosa sta succedendo mentre passo in rassegna tutta una serie di ipotesi drammatiche, dall’ignobile furto delle rose fino ad un’urgenza di qualche tipo, passando per una sua momentanea amnesia.
Ma lei sta uscendo dal portone proprio in questo momento. Si è cambiata ed ora sfoggia un abito aderente D&G, sandali neri e borsa Braccialini; abbiamo comprato insieme parte di ciò che indossa e probabilmente c’ero io anche quando ha provato la biancheria intima. Se prima era bella adesso sta da dio.
Sembra allegra, sorride. Scruta nella mia direzione e finalmente riesco a fare un passo avanti anch’io. Sorride ancora mentre mi vede ma l’espressione è strana, come se io non fossi lì davanti a lei, come se non stesse guardando me ma attraverso me!
Mi accorgo che ha in mano il biglietto dei fiori.

Tutto è accaduto molto velocemente ma io non ne ho memoria, come se non ne avessi avuto una percezione diretta, come se me l’avessero riferito. Come quando vieni investito e qualcuno dopo ti racconta cos’è successo.
C’è un auto, una Bmw nera, che forse era in doppia fila già da qualche minuto.
C’è un uomo, mi pare sia in divisa, che si piega in avanti e le apre lo sportello dall’interno.
C’è lei che in scioltezza sale a bordo e nel mentre il vestito svela le sue gambe lunghe prima che si sistemi la borsa in grembo.
C’è che forse si sono baciati ma non so, non potrei giurarci; forse lui ha baciato lei, non so, ma a ripensarci non credo cambi molto.
Rivedo da ore la stessa sequenza di immagini mentre perdo l’ennesima chiamata per un volo che potrebbe riportarmi a casa.
Sono seduto davanti alla vetrata panoramica e mi sento talmente vuoto da non avvertire alcun dolore.
Non so neppure com’è che sono arrivato in aeroporto.
Ricordo solo che la radio del taxi passava quella canzone di qualche anno fa… l’aria sulla quarta corda di Bach mixata da quel gruppo pop… everything’s gonna be alright

mercoledì 8 ottobre 2008

Sta andando tutto bene - due

I successivi novanta minuti – tanti ne sono occorsi perché io potessi trovarmi in fila per prendere un taxi – mi sembra siano volati. Nel senso letterale dell’espressione anche se ne viene fuori uno stupido gioco di parole.
Ho tollerato sovrappensiero i controlli di sicurezza, il sedile angusto in coda all’MD80 e un po’ di turbolenza da qualche parte sopra il Tirreno; tra decollo, vuoti d’aria e corridoio di discesa mi sembra di non aver mai tolto la cintura di sicurezza.
Ho persino aiutato la nonna turchina che mi precedeva nella fila e che non ce l’avrebbe mai fatta a trasportare quell’armadio a quattro ante che aveva deciso di usare come valigia.
Vado a trovare i miei nipoti in Argentina” ha tenuto a precisare a me e ad una assonnata impiegata che cercava di farle inutilmente comprendere la necessità di pagare un supplemento per quasi sessanta chili di bagaglio non previsto.
Io non ho neppure uno zaino e ciò contribuisce a rendere piacevole questo viaggio inconsueto; mi trovo lontano da dove normalmente sarei in un giorno qualunque e non c’è nessuno che sappia dove sono. Non ancora almeno.
Però ho quasi due ore di ritardo sulla mia personale tabella di marcia e, mentre l’auto bianca si accosta al marciapiede, comincio ad avvertire una certa trepidazione che mi obbliga a mormorare, fiaccamente, che va ancora tutto bene.
Mi siedo, guardo la faccia fintamente cordiale dell’autista e – mentre mi rendo conto che sono le prime parole che pronuncio da ieri sera – indico la mia destinazione e poi aggiungo, tanto per essere sicuri, anche il quartiere.
Lui ingrana la marcia ed esce dalla corsia di stazionamento immettendosi nell’apparentemente ingovernabile caos a quattro ruote. Noto che lascia spento il navigatore e la cosa, chissà perché, mi piace; evidentemente anche lui, come me, sa dove andare ma lui, più di me, sa cosa lo aspetta all’arrivo mentre io non riesco proprio ad immaginarlo.
Ora che sono così vicino mi sembra di aver fatto una sciocchezza e per un lungo momento mi sento fuori posto. Un cretino fuori posto, per la precisione.
Vago con i pensieri al di fuori dai finestrini mentre il taxi entra nel raccordo autostradale e si dirige verso il mio futuro. Che poi è un tutt’uno col presente ed il passato.
Non ricordo più da quanto la conosco. È un modo di dire ma realmente devo pensarci un attimo prima di assegnare un numero agli anni trascorsi; nove, forse dieci, dipende anche da quando comincio a fare il conto.
Dapprima cordialmente indifferenti l’uno all’altro, siamo diventati amici per caso e poi nemici per sbaglio, per un equivoco, per uno stupido malinteso. E dopo di nuovo amici – questa volta per scelta – con la voglia di dividersi il lavoro e il tempo libero, le giornate buone così come i momenti duri.
Anni interi sono passati in questo modo, a litigare per finta per poi far pace sul serio seduti davanti a qualche birra e troppe sigarette, discutendo su qualsiasi cosa fino a non poterne più; ivi comprese le reciproche liasons con altre persone a cui - chissà per quale ragione - mancava sempre qualcosa per essere quelli giusti.
Ed infine, circa un anno fa, il nostro – il mio - piccolo orizzonte è cambiato nuovamente. Lei con un nuovo lavoro e soprattutto con una voglia irrefrenabile di trasferirsi, io che ho finito col dire qualche parola sbagliata per via della mia atavica paura di ogni cambiamento.
La nostra – la mia - vita quotidiana si è trasformata all’improvviso.
In tutti questi mesi ci siamo visti abbastanza spesso ed altrettante volte abbiamo finito col ritrovarci nelle nostre lunghe ed emozionanti conversazioni velate, forse, da un certo imbarazzo.
All’inizio mi sembrò essere quel comprensibile disagio di chi si ritrova dopo una forzata lontananza poi, quando l’alba ci ha trovato più volte vicini e silenziosi, ho capito che le troppe cose fino ad allora taciute esigevano una voce. Il silenzio tutto ad un tratto ha cominciato a fare molto rumore.
Da allora credo di aver formulato centinaia di domande e spero che alcune avranno presto una risposta. La luce dei sentimenti oppure il buio della ragione? La preoccupazione di perdersi o la paura di trovarsi davvero? Un amore da negare oppure una passione da vivere?
La frenata decisa della monovolume cancella i miei flashback e mi ritrovo in una desolante realtà. Il traffico è bloccato per chissà quale ragione ed il mio ritardo su un appuntamento che non c’è sta aumentando in maniera esponenziale.
Se potessi scenderei qui e mi incamminerei nella corsia di emergenza; il tassista, però, dev’essere uno d’esperienza perché mi osserva dal retrovisore e cerca di prevenire il panico con un rassicurante “È tutto ok, dottò. Mò se sblocca”.
[continua... forse]

lunedì 6 ottobre 2008

Sta andando tutto bene

La domanda, per quanto inutile e retorica, sorge spontanea non appena le porte a vetri si aprono automaticamente e mi investe uno sbuffo di aria fredda.
Riuscirò mai ad essere il primo della fila ad un banco check-in?
Sono le cinque e mezzo del mattino, pensavo di essere in anticipo ma davanti a me ci sono disordinatamente almeno venti persone.
È poco più di una curiosità la mia ma davvero, per qualsiasi volo io abbia preso, non mi è mai capitato di ricevere la prima carta d’imbarco e scegliere comodamente il primo dei posti disponibili.
Sono sorpreso di trovare così tanta gente a quest’ora perché in fondo l’estate è finita e si è appena concluso anche un noioso weekend. È una fresca giornata di un caldo settembre e quella stessa aria condizionata che tra qualche ora sarà indispensabile adesso mi infastidisce.
Per ora sono l’ultimo della coda e mi posiziono dietro un’anziana signora con i capelli riflessi d’azzurro ed un’assurda valigia alta molto più di lei e apparentemente pesante qualche quintale.
La signora non si muove di un passo e lo stesso fanno quelli che la precedono tranne due bambini che giocano a rincorrersi, troppo piccoli per essere composti e troppo svegli per la mia tolleranza mattutina.
Il personale non ha ancora iniziato le operazioni preliminari e, mentre me ne chiedo la ragione, mi accorgo del cartello scritto a mano posizionato sul bancone: “Problemi tecnici, ritardo partenza”.
Il monitor che ho davanti agli occhi, invece, lampeggia in corrispondenza del mio volo e chiama addirittura il boarding now.
Pennarello batte elettronica uno a zero.
Va tutto bene, penso, mentre ricaccio indietro una punta di irritazione, non sarà certo questo contrattempo a rovinarmi la giornata.
Del resto neppure una prolungata e prevedibile insonnia è riuscita a mettermi di cattivo umore.
Comodamente steso in poltrona, al buio di una veranda sui cui vetri riflettevano le luci notturne della costa, ho metodicamente rivisto tutti i miei programmi del giorno seguente, come uno stratega avrebbe fatto con i propri piani di guerra.
Aeroporto, parcheggio, partenza, arrivo, taxi, sorpresa, io dico, lei dice… e di nuovo un’altra volta, con qualche variazione sul tema e piccoli timori da scacciare ogni volta per quell’imponderabile che può sempre accadere a dispetto di qualsiasi organizzazione.
La pianificazione, ad essere sinceri, si presenta inutilmente dettagliata all’inizio ma poi nel corso della giornata si frantuma contro piccoli - imprevedibili ma fondamentali – dettagli su cui io non alcun controllo.
Per tacere della paura principale, quella relativa alla sua reazione: stupore, allegria, fastidio o cos’altro? Anche ora, al solo ripensarci, mi sembra venga nuovamente meno la determinazione di partire.
Invece resto saldo nei miei propositi e torno a ripetermi - amara ed ineluttabile verità – che non ho niente da perdere e, al contrario, forse finirò col ritrovare un po’ di rispetto per me stesso.
Forse saprò dire alla donna che amo ciò che provo e forse – ma questo è il primo pieno della lotteria – non glielo dirò invano.
Intanto la fila ha cominciato a muoversi verso un altro sportello ed io, dopo brevissima riflessione sul concetto di efficienza applicato dalla nostra compagnia di bandiera, riesco a relegare da qualche parte le mie ansie ed a ripetermi che sta andando tutto bene.
[continua... forse]