Ti ricordi di me? - quattro
Sono deciso a distruggere - senza leggerlo - il nuovo messaggio che troverò ma non sono preparato a ciò che mi aspetta quando apro la porta.
Sulla soglia ci sei tu che mi guardi ed accenni un sorriso.
Non mi capacito di trovarti qui davanti per tanti motivi, non ultimo perché fino a un attimo fa stavo parlando con te nell’apparente tranquillità della mia solitudine.
La musica si sente fin qui e vorrei averla spenta perché la colonna sonora non mi pare adatta al momento.
Resto immobile e so di non avere un’espressione brillante mentre noto che anche quel bastardo del bulldog ora tace ai tuoi piedi.
«Ti ricordi di me?». Sei in scena da cinque secondi e ti sei già presa la battuta migliore.
«Si… abbastanza». E con questa so di essere stato bocciato al corso di improvvisazione.
«Ho pensato su quel foglio non ci fosse altro spazio da riempire e preferisco non cominciarne un altro.»
«Già… Vuoi entrare?»
«Pensavo non me l’avresti chiesto» e intanto ti avvii con disinvoltura in una casa che conoscevi bene.
Mi sento confuso e stupido. Se questa fosse una partita di pallone le squadre sarebbero ancora negli spogliatoi ed io sarei già sotto di un gol.
Abbasso il volume dello stereo e ti raggiungo in cucina mentre ti guardi intorno alla ricerca di ben poche novità.
«Ancora Ikea?», stai indicando un orologio alla parete.
Faccio si con un cenno del capo perché è più semplice che parlare ma mi domando se ora inizieremo a chiacchierare anche del clima.
«Me ne offri un goccio?»
Prendo un bicchiere e verso quanto basta reggendolo solo per lo stelo, come mi hanno insegnato. Ora però non ne posso più!
«Che vuoi Anna?», la voce è un po’ strozzata ma almeno sono riuscito a chiedertelo; per la verità la domanda originaria era che cazzo vuoi e cosa ci fai di nuovo nella mia casa.
Prevedibilmente osservi il silenzio e continui a fissarmi con uno sguardo cui non so dare un nome né un significato.
Che poi – penso mentre bevi il rosso del mio vino che si stempera su quello delle tue labbra – non so neppure perché te l’ho chiesto dato che non potrò credere a nulla di ciò che dirai.
Forse è meglio il silenzio perché almeno ai tuoi mutismi sono abituato; se invece adesso dici una cosa sbagliata non so immaginare come finirà.
«Volevo vederti… parlare un po’... di noi». Ecco, appunto.
«Noi è un pronome che tu stessa hai cancellato dal vocabolario!»
«Perché hai scritto quelle cose? Le pensi davvero? Sul serio credi possa scordarmi di te?»
«Non lo so perché l’ho fatto e, se è per questo, non so neppure perché ho risposto al tuo biglietto… Ma quello che penso io non ha importanza, non l’ha mai avuta». Mi sento già stanchissimo e questa conversazione mi sembra un’inutile crudeltà.
«Non è vero e lo sai.»
«Io non so niente, io non so un cazzo di niente. Io non ho mai saputo quello che ti passava realmente per la testa! Questa è l’unica certezza che ho.»
«Tu sai che non è così.»
Mentre lo dici non mi guardi ed anche questo dettaglio mi ricorda sensazioni spiacevoli che vorrei disperatamente dimenticare.
«Quello che so è che la donna di cui ero innamorato se n’è andata con un colpo di telefono perché non valevo neppure il disturbo di un incontro. Quello che so è che prima ancora non ha mai trovato il modo di dirmi cosa provasse per me.»
Stai per dire qualcosa ma nell’impeto ti anticipo e nel farlo sono già pentito perché temo che dopo non parlerai più.
«E so anche che quella donna è riuscita a lasciarmi senza neppure essere costretta a dirlo… Maledizione, neppure quello hai fatto, ché le parole ho finito col dirmele da solo mentre in sottofondo c’era soltanto il tuo silenzio!»
«Non potevo fare diversamente allora.»
«Stronzate. Cosa non potevi fare? Non potevi rimanere oppure non potevi dirmi dei tuoi sentimenti?»
Silenzio e occhi bassi. Per qualsiasi altra persona al mondo questo atteggiamento sarebbe un’ammissione di responsabilità ma - ormai lo so bene - nel tuo caso stai solo cercando una via d’uscita; magari ti stai anche incazzando perché ti senti messa all’angolo.
«Rispondimi, per favore. Ho bisogno di saperlo, Anna, è un mio diritto saperlo, cazzo!»
«Diritto? Ma che vuol…»
«Come puoi essere così arrogante? Come fai a non capire che è importante? Quando si è innamorati certe parole vanno dette… certe carezze vanno fatte… certi momenti devono essere vissuti.»
«Ma…»
«Dopo puoi correggere quelle parole, puoi chiarire le situazioni, puoi perfino riprenderti indietro i gesti come se non li avessi mai compiuti… Quando ti accorgi di esserti sbagliata puoi sempre ripensarci e nessuno potrà farci niente.»
Ho paura di venirti vicino ma è come se l’altro lato del tavolo fosse troppo distante per farti sentire ciò che ho dentro.
«Ho il diritto di sapere perché non mi hai concesso niente. Non so se mi hai amato e non so quando hai smesso di farlo. Con i tuoi silenzi hai finito col negare la nostra stessa esistenza e certe volte mi pare di essermi immaginato tutto!»
Mi tremano un po’ le mani mentre ti sollevo il viso e ritrovo la setosità della tua pelle come si ritrovano i bei ricordi.
«Mi hai cancellato ed io non so neppure se sono mai stato reale.»
Ho voglia di guardarti ed ho bisogno che tu guardi me.
«Perché non mi hai mai detto cosa sentivi per me?»
«Perché non lo so fare, cazzo, non lo so fare», hai gli occhi lucidi di lacrime che ancora non ci sono e la voce un po’ alterata. «Non ne sono capace o almeno pensavo di non esserlo, pensavo di poterne fare a meno.»
Sulla soglia ci sei tu che mi guardi ed accenni un sorriso.
Non mi capacito di trovarti qui davanti per tanti motivi, non ultimo perché fino a un attimo fa stavo parlando con te nell’apparente tranquillità della mia solitudine.
La musica si sente fin qui e vorrei averla spenta perché la colonna sonora non mi pare adatta al momento.
Resto immobile e so di non avere un’espressione brillante mentre noto che anche quel bastardo del bulldog ora tace ai tuoi piedi.
«Ti ricordi di me?». Sei in scena da cinque secondi e ti sei già presa la battuta migliore.
«Si… abbastanza». E con questa so di essere stato bocciato al corso di improvvisazione.
«Ho pensato su quel foglio non ci fosse altro spazio da riempire e preferisco non cominciarne un altro.»
«Già… Vuoi entrare?»
«Pensavo non me l’avresti chiesto» e intanto ti avvii con disinvoltura in una casa che conoscevi bene.
Mi sento confuso e stupido. Se questa fosse una partita di pallone le squadre sarebbero ancora negli spogliatoi ed io sarei già sotto di un gol.
Abbasso il volume dello stereo e ti raggiungo in cucina mentre ti guardi intorno alla ricerca di ben poche novità.
«Ancora Ikea?», stai indicando un orologio alla parete.
Faccio si con un cenno del capo perché è più semplice che parlare ma mi domando se ora inizieremo a chiacchierare anche del clima.
«Me ne offri un goccio?»
Prendo un bicchiere e verso quanto basta reggendolo solo per lo stelo, come mi hanno insegnato. Ora però non ne posso più!
«Che vuoi Anna?», la voce è un po’ strozzata ma almeno sono riuscito a chiedertelo; per la verità la domanda originaria era che cazzo vuoi e cosa ci fai di nuovo nella mia casa.
Prevedibilmente osservi il silenzio e continui a fissarmi con uno sguardo cui non so dare un nome né un significato.
Che poi – penso mentre bevi il rosso del mio vino che si stempera su quello delle tue labbra – non so neppure perché te l’ho chiesto dato che non potrò credere a nulla di ciò che dirai.
Forse è meglio il silenzio perché almeno ai tuoi mutismi sono abituato; se invece adesso dici una cosa sbagliata non so immaginare come finirà.
«Volevo vederti… parlare un po’... di noi». Ecco, appunto.
«Noi è un pronome che tu stessa hai cancellato dal vocabolario!»
«Perché hai scritto quelle cose? Le pensi davvero? Sul serio credi possa scordarmi di te?»
«Non lo so perché l’ho fatto e, se è per questo, non so neppure perché ho risposto al tuo biglietto… Ma quello che penso io non ha importanza, non l’ha mai avuta». Mi sento già stanchissimo e questa conversazione mi sembra un’inutile crudeltà.
«Non è vero e lo sai.»
«Io non so niente, io non so un cazzo di niente. Io non ho mai saputo quello che ti passava realmente per la testa! Questa è l’unica certezza che ho.»
«Tu sai che non è così.»
Mentre lo dici non mi guardi ed anche questo dettaglio mi ricorda sensazioni spiacevoli che vorrei disperatamente dimenticare.
«Quello che so è che la donna di cui ero innamorato se n’è andata con un colpo di telefono perché non valevo neppure il disturbo di un incontro. Quello che so è che prima ancora non ha mai trovato il modo di dirmi cosa provasse per me.»
Stai per dire qualcosa ma nell’impeto ti anticipo e nel farlo sono già pentito perché temo che dopo non parlerai più.
«E so anche che quella donna è riuscita a lasciarmi senza neppure essere costretta a dirlo… Maledizione, neppure quello hai fatto, ché le parole ho finito col dirmele da solo mentre in sottofondo c’era soltanto il tuo silenzio!»
«Non potevo fare diversamente allora.»
«Stronzate. Cosa non potevi fare? Non potevi rimanere oppure non potevi dirmi dei tuoi sentimenti?»
Silenzio e occhi bassi. Per qualsiasi altra persona al mondo questo atteggiamento sarebbe un’ammissione di responsabilità ma - ormai lo so bene - nel tuo caso stai solo cercando una via d’uscita; magari ti stai anche incazzando perché ti senti messa all’angolo.
«Rispondimi, per favore. Ho bisogno di saperlo, Anna, è un mio diritto saperlo, cazzo!»
«Diritto? Ma che vuol…»
«Come puoi essere così arrogante? Come fai a non capire che è importante? Quando si è innamorati certe parole vanno dette… certe carezze vanno fatte… certi momenti devono essere vissuti.»
«Ma…»
«Dopo puoi correggere quelle parole, puoi chiarire le situazioni, puoi perfino riprenderti indietro i gesti come se non li avessi mai compiuti… Quando ti accorgi di esserti sbagliata puoi sempre ripensarci e nessuno potrà farci niente.»
Ho paura di venirti vicino ma è come se l’altro lato del tavolo fosse troppo distante per farti sentire ciò che ho dentro.
«Ho il diritto di sapere perché non mi hai concesso niente. Non so se mi hai amato e non so quando hai smesso di farlo. Con i tuoi silenzi hai finito col negare la nostra stessa esistenza e certe volte mi pare di essermi immaginato tutto!»
Mi tremano un po’ le mani mentre ti sollevo il viso e ritrovo la setosità della tua pelle come si ritrovano i bei ricordi.
«Mi hai cancellato ed io non so neppure se sono mai stato reale.»
Ho voglia di guardarti ed ho bisogno che tu guardi me.
«Perché non mi hai mai detto cosa sentivi per me?»
«Perché non lo so fare, cazzo, non lo so fare», hai gli occhi lucidi di lacrime che ancora non ci sono e la voce un po’ alterata. «Non ne sono capace o almeno pensavo di non esserlo, pensavo di poterne fare a meno.»
[continua... forse]
signori.. appuntamento a venerdì.
RispondiEliminala suspence (si scrive così?) continua.
saluti
E bravo PF... mi tieni ancora con il fiato sospeso...
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