venerdì 3 giugno 2016
domenica 27 novembre 2011
"Un mattino a Irgalem" di Davide Longo
Potrebbero bastare questi tre aggettivi (e forse all’autore piacerebbe proprio così) per descrivere l’essenza di quest’opera prima datata 2001, premiata l’anno successivo come miglior esordio dalla giuria del Premio Grinzane Cavour.
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venerdì 15 ottobre 2010
Colore nero abisso - tre
Non è che possa descrivere molto di quanto è accaduto, comunque non in maniera precisa, almeno da un certo momento in poi. Tutto si è svolto in modo meccanico e confuso al tempo stesso.
La conclusione, se proprio deve essercene una, in fondo è tutta qui.
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venerdì 8 ottobre 2010
Colore nero abisso - due
E comunque, ho riflettuto, stando così le cose avrei avuto scarse possibilità di essere un buon padre, presente ed amato.
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martedì 5 ottobre 2010
Colore nero abisso
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mercoledì 28 luglio 2010
Sera d'estate
Ascolto
i miei pensieri
che hanno la tua voce,
i gesti con le mani
che intrecciano le mie,
il fiato col fiato si confonde,
il tempo di uno sguardo
che si consuma lento.
E i baci i baci i baci,
sono l’ingresso al giardino
del tuo corpo
e in esso io, cercandomi,
mi perdo.
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mercoledì 30 giugno 2010
La seconda volta
Era già successo molti anni prima quando lei era la ragazza di un mio compagno di università e la sera – tutte le sere – uscivamo in comitive lunghe molte auto, a giro per le strade della notte, spesso col solo intento di aspettare i primi cornetti caldi dell’alba.
L’ho rivista un mese fa, quando ho accompagnato mia figlia alla preiscrizione al ginnasio anche se lo so – “per favore papà non mettermi in imbarazzo che qui nessuno sa cos’è un ginnasio” – che adesso si chiama scuola secondaria di secondo grado e, nello specifico, liceo classico europeo.
Da qualche parte dentro di me non potevo fare a meno di pensare che se i ragazzi adesso sono quasi tutti grandifratelli o naufraghifamosi è anche perché nessuno ha mai spiegato loro cos’era un ginnasio. Ma la mia era una riflessione nata già vecchia, ne ero consapevole.
La scuola aveva cambiato nome e strategie comunicative ma l’edificio sembrava sempre lo stesso. Non ci mettevo piede da decenni e nel farlo mi scoprivo emozionato; sicuramente per l'ennesima conferma di una vita in qualche modo già trascorsa ma soprattutto perché quel terremoto di mia figlia stava diventando grande ed io, incapace di esternare appieno i sentimenti, non ero certo sapesse quanto ero fiero di lei.
Nell’androne c’era una notevole attività e si era formata quella che avrebbe dovuto essere una fila in attesa ma – magia del popolo italico – assomigliava più ad un assembramento non autorizzato. Così, casualmente, mentre aspettavamo il nostro turno vicino a quella che un tempo era la porta del famigerato professor De Stefano, ho scoperto che Alessandra è il preside, pardon il dirigente scolastico del liceo.
La ricordavo come una ragazza carina - tanti capelli mossi su un viso sempre allegro - e ritrovavo una donna dal piglio autorevole che riusciva a condurre due distinte conversazioni telefoniche simultaneamente, mentre firmava non so cosa e supervisionava l’accoglienza di genitori e figli.
Mi si presentava una donna decisamente affascinante cui la vita forse aveva lasciato qualche ruga di troppo intorno agli occhi.
Quando è arrivato il nostro turno l’impiegata ha ripetuto ad alta voce nome e cognome di mia figlia e, dopo che qualcuno le ha portato una cartella sospesa di colore giallo, ha sbrigato la pratica in pochi minuti, raccogliendo alcune informazioni e consegnandole un elenco di documenti da presentare la volta successiva. Assegnata, sia pure provvisoriamente, al corso C.
Mentre andavamo via Alessandra è apparsa sulla soglia dell’ufficio per un benvenuto formale che poi si è trasformato in un saluto veloce – “Ma noi ci conosciamo, ciao sei tu? Come stai? Quanto tempo è passato…” - anche perché lei era evidentemente impegnata e comunque pareva poco propensa a ricordare quel passato goliardico che solo in piccola parte avevamo condiviso.
La prima volta che Alessandra mi ha telefonato non ha chiamato me e non l’ha neppure fatto lei personalmente.
In ogni caso è stato l’inizio di un qualcosa che prima non c’era ma da quel momento è come se ci fosse sempre stato.
Il cellulare di mia figlia squillò qualche giorno dopo, mentre io mi apprestavo a parcheggiare l’auto e lei si preparava psicologicamente ad affrontare al meglio una giornata di shopping compensativo, diceva lei, compulsivo precisavo io.
In realtà il piccolo Samsung, rigorosamente touch screen, non squillò affatto perché prese il via un cacofonico brano musicale – “ma papà, sono i Tokio!” – che ovviamente non potevo conoscere. Le suonerie di mia figlia, tra l’altro, cambiano ogni settimana e probabilmente anche a seconda del chiamante.
“E' la scuola, vogliono te”, disse porgendomi il telefono pieno di sonaglini colorati.
“Le passo la dottoressa… Pronto, non volevo disturbarti…”. La voce di Alessandra apparve improvvisamente nella mia testa ed io provai subito ad immaginarla, rivedendola con lo stesso tailleur nero – gonna longuette a linea dritta, camicia in seta bianca, giacca con revers a bottone unico, sandalo alto con plateau – che indossava a scuola.
Dalla segreteria reclamavano una mia firma che però, ne ero certo, nessuno si era ricordato di chiedermi. Cosicché aveva pensato di cercarmi e “…magari ti offro anche un caffè”.
Con la consueta spigliatezza che ha sempre contraddistinto il mio rapportarmi all’altro sesso riuscii ad articolare un mormorio di sorpresa insieme a qualche “certo, senz’altro, quando vuoi” che amplificarono il mio disorientamento e suscitarono i commenti sarcastici di mia figlia.
Ne fui abbastanza meravigliato e non seppi relegare l’episodio tra le cose imponderabili dell’esistenza; la qual cosa ebbe come immediata conseguenza la totale perdita di controllo sull’uso della carta di credito da parte della mia adorata ginnasiale.
Mi venne in mente che non avevo mai saputo perché quel mio amico ed Alessandra si fossero lasciati; semplicemente, almeno così mi pareva di ricordare, ad un certo punto lei era sparita dai nostri giri ed il gruppo si era rapidamente ricompattato su se stesso.
Il caffè che ne seguì fu lungo per entrambi. Lungo un pomeriggio intero oppure lungo quanto un pezzo di vita; almeno quella versione restaurata che si può aver voglia di ricordare e raccontare ad una quasi sconosciuta.
Senza alcun cerimonioso imbarazzo – più per merito suo in verità – riuscimmo a superare tutti i «ti ricordi?» per poi finalmente scherzare con una lunga serie di «perché tu invece non sai che» delle nostre reciproche vite. Insomma tutte quelle piccole cose – conoscenze comuni, situazioni paradossali, ricordi dimenticati - che potevano armonizzare quell’essersi ritrovati.
Tutto avvenne con una spontaneità tale da far dimenticare a me un appuntamento di lavoro e da farla sorridere rilassata persino quando raccontava di un marito ormai molto ex e decisamente poco empatico.
Per tutto il tempo senza mai smettere di guardarla, molto divertito dalla straniante familiarità della situazione, mi accorsi di un pensiero un attimo dopo averlo già formulato e fu inevitabilmente troppo tardi.
La prima volta che io e Alessandra abbiamo fatto l’amore sembrava essere la seconda volta. Non saprei spiegarmi meglio di così.
Mentre ero intento a domandarmi per quale motivo mi ostinassi a vivere in città sull’uscio comparve lei con uno dei suoi luminosi e contagiosi sorrisi.
Tre passi e dieci secondi dopo ci abbracciammo come se avessimo atteso da sempre quel momento e la sentii sciogliersi tra le mie braccia. Ed io, stupito di me stesso, mi sciolsi con lei.
Con una naturalezza cui ero poco abituato Alessandra mi mostrò la sua casa - in cui anche il disordine sembrava organizzato - e piano, con studiata lentezza, mi mostrò se stessa e il suo mondo, il suo corpo e la sua anima.
Evidentemente le parole con cui ci eravamo ritrovati non erano bastate perché entrambi, l’uno tra le braccia dell’altro, le mani intrecciate ed i respiri vicini, non riuscivamo a smettere di raccontarci.
Lei che si confidava molto più di quanto avesse fatto con sua sorella negli ultimi due anni – così diceva - ed io che parlavo senza alcuna remora di ampie porzioni della mia complicatissima vita; per poi scoprire, attraverso i suoi occhi, che forse tanto complicata non era.
Fino a quel silenzio naturale che sa unire piuttosto che dividere.
Così le voci lasciarono spazio ai baci e dopo fu solo un rincorrersi di corpi e mani e bocche, io con una frenesia dimenticata e lei, diceva, con una arrendevolezza sconosciuta.
Anche in quella camera dalle pareti di un caldo amaranto riuscimmo a trovarci senza alcun disagio e, rivelandoci l’uno all’altro, finimmo con lo scoprire un po’ di noi stessi.
Ed io, più di ogni altra cosa, liberai d'un tratto la mia voglia di vivere mentre lei lasciò correre la sua che con gli anni non sembrava – non era – diminuita ma anzi amplificata.
La seconda volta che ho fatto l’amore con Alessandra è stata come la fine di un lungo viaggio.
Come entrare in un’abitazione sconosciuta e sentire di essere finalmente giunto a casa.
(eri solo da incontrare ma tu ci sei sempre stata...)
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sabato 1 maggio 2010
Il cuore in bilico
Me ne sto qui
appeso ai punti
sospesi di una frase,
con l'aria sciocca
di uno che si guarda dentro
e ride di stupore a quel che vede.
In bilico sui punti
resto qui,
attento alle emozioni
tese come una corda tesa,
tra le parole dette
e le tue labbra scure.
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sabato 28 febbraio 2009
“Operazione Valchiria" di Bryan Singer
Probabilmente il corso degli eventi sarebbe stato modificato di poco visto che - non va taciuto questo particolare – l’azione del colonnello von Stauffenberg e dei suoi sodali era quanto mai tardiva (lo sbarco in Normandia era avvenuto poco più di un mese prima) e non immune da un’ipocrita determinazione di salvaguardare se stessi (intesi anche come centri di potere politico-economico) insieme e prima della “santa Germania”.
La Storia come noi la conosciamo, piuttosto, sarebbe stata certamente diversa se Maurice Bavaud, anonimo studente svizzero, fosse riuscito nel suo intento omicida già nel novembre 1938. Ma questo sarebbe tutto un altro film.
Il regista de “I soliti sospetti” sa quel che deve essere fatto e normalmente sa come farlo; questa volta però l’opera gli riesce a metà, per così dire, nonostante un’imponente produzione che si fa notare dalle locations ai costumi, passando per il commento musicale.
Forse a causa di una sceneggiatura troppo descrittiva nella prima parte, forse per via di un attore protagonista che non convince nei panni di personaggio storico, l’intero lavoro soffre di un appiattimento complessivo che neppure la regia o i bravi comprimari britannici riescono ad evitare.
Insomma non un brutto film ma certamente un grande film mancato.
La scena più bella? All’eroico colonnello viene ingiunto di salutare appropriatamente il capo supremo ed egli, voltandosi verso il suo interlocutore, urla il saluto nazista alzando il braccio destro con la mano mozza!
In questo fermo immagine, con un ridicolo gesto rituale reso involontariamente grottesco dalla menomazione fisica, sembra finalmente intravedersi la disfatta del Reich ed il regista è abile a cogliere questa consapevolezza negli occhi del vile Tom Wilkinson, alias generale Fromm.
Neppure il cinema, a quanto pare, si fa con i se e con i ma.
La qual cosa porta a concludere che se la macchina hollywoodiana fosse meno attaccata ai suoi tanti cliché – uno per tutti, l’obbligo di un lieto fine che quando non può esserci, come in questo caso, ripiega sulla catarsi del protagonista – potrebbe benissimo realizzare un film storico senza trasformarlo in un’avventura come tante.
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mercoledì 4 febbraio 2009
Senza te
Il tempo scorre
troppo lentamente
perchè smettere d'amarti
diventi un'abitudine indolore.
Il tempo non ha senso
se lo fermi e gridi amore.
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sabato 31 gennaio 2009
“La separazione del maschio” di Francesco Piccolo
Non riesco neppure a dire che sia un libro complicato perché, a parte alcune pesanti pagine centrali, è ben scritto ed altrettanto bene “montato”, come fosse un film, con scene rapide nel loro alternarsi e dirette nel raccontare.
Proprio come il protagonista – montatore cinematografico di professione e accorto regista della propria vita – riesce a fare con le molte trame della sua esistenza.
Matrimonio con Teresa, stacco. Sesso con Francesca, dissolvenza. Accompagnare a scuola Beatrice, campo lungo. E poi di nuovo, scopare con Valeria, lavorare ad un progetto, pensare ad un’altra scopata, in una ciclica ed ordinata sovrapposizione di volti, corpi e situazioni.
Mentre in sottofondo pare di sentire l’eco del biasimo femminile la lettura offre invece l’occasione per un’analisi più approfondita del generico e superficiale “tutti uguali gli uomini”. In questo esame, però, non c’è spazio per gli assolutismi: niente è soltanto bianco e nulla è mai davvero nero.
Perché, come pure capita nel mondo reale, si dovrà riconoscere che un compagno infedele riesce ad essere un marito affettuoso; un uomo costantemente preso dai propri desideri sa essere anche un padre premuroso o un amico sincero.
Si comprenderà che il maschio in questione, a suo modo, ama davvero tutte le donne della sua vita (persino quelle con cui non scopa o non ha desiderato di farlo) e per tutte loro davvero si preoccupa. Si scoprirà, infine, che qualunque castello (di carte) può avere fondamenta solide eppure crollare all’improvviso, non per fatto proprio ma per l’errore – il tradimento – altrui.
Ad analisi terminata bisognerà convivere con il malessere che consegue alla scoperta di così tante “quasi verità” laddove – azzardando una superflua moralizzazione - ogni cosa è al suo posto eppure niente è davvero in ordine.
Mi sono chiesto perché in qualche modo è stato difficile leggere fino all’ultima pagina di questo (poco) scandaloso romanzo.
Il protagonista vive come molti non osano, pensa ciò che non dovrebbe e dice cose che non andrebbero neppure pensate! Vive una vita giusta nel modo, forse, sbagliato e la porta avanti – riuscendo a tenere insieme i troppi tasselli che la compongono – nonostante gli sbagli anzi, in qualche caso, grazie ad essi.
Il protagonista, insomma, è quell’immagine che ciascuno potrebbe vedere riflessa nello specchio al mattino, quando il vapore della doccia si alza e sul vetro restano i segni delle tante, troppe, ditate della vita.
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mercoledì 14 gennaio 2009
Duecento gradini - cinque
Eppure ci provo lo stesso, con una caparbietà che – duecento gradini fa – non avevo o non sapevo di avere.
«La verità è che abbiamo perso tempo e il tempo alla fine si è vendicato.»
Questa, forse, non è la sola realtà che saremo costretti a lasciarci alle spalle ma almeno è qualcosa su cui ti osservo riflettere un attimo prima di parlare.
«La verità è che ti sei lasciata governare dall’orgoglio con la stessa stupidità con cui un uomo si fa comandare dal suo uccello.»
E tu conosci bene quest’argomento vero? Per la prima volta stasera ho la sensazione che sia stato tu a dire la cosa sbagliata, quanto meno perché mi hai rammentato ciò che vorresti io dimenticassi.
«Non ricordavo quanto fossi…» Sto per aggiungere presuntuoso ma, quasi avessi letto i miei pensieri, mi interrompi per un po’ di tardiva autocritica.
«Per le decisioni che ho preso sono colpevole io e non l’ho mai negato; per quelle che non ho preso la responsabilità invece è tua. Anche se non vorrai ammetterlo mai!»
«…stronzo», quel presuntuoso mi sembrava poco ormai.
«Ed io quanto fossi infida e… bella.»
Invece stronzo rende abbastanza bene l’idea che in questo momento ho di te; anche se non riesco mai a dirtelo con sufficiente cattiveria.
Perché - a dispetto della tua saccente intelligenza - spesso hai fatto la cosa sbagliata senza volerti preoccupare delle conseguenze; perché sai di essere una persona sensibile e a volte credi che questo ti dia il diritto di giudicare la sensibilità altrui.
Stronzo perché riesci a trovare le parole giuste anche nel momento sbagliato, persino per confessare le tue colpe o rendere più lieve l’aria intorno a noi.
Come hai appena fatto, per esempio, mentre ti appoggiavi sul piano alle tue spalle e finalmente rilassavi quel solco che hai sul viso.
Non so più che fare con te. Questo è il mio primo pensiero e solo a me stessa posso confessarlo.
Davvero non so cosa pensare e in quest’incertezza sono consapevole che provocarti – come sto facendo ora – è quanto di più divertente e pericoloso possa fare.
«Hai parlato sempre al passato, non sei più innamorato di me?»
Di nuovo quell’imbarazzo perplesso che sembra paralizzarti e ti rende più simpatico di quanto tu non possa credere.
«Anna…» è l’unico suono che emetti perché se parli ancora potresti ridere e non lo vuoi.
«…vaffanculo. Si, hai ragione, me lo sono cercato». Il resto, come vedi, me lo dico da sola perché anch’io, al tuo posto, me lo ripeterei.
Prima mi guardavi il seno ed ora che mi avvicino a te vorrei sentirmeli addosso quegli occhi, come fossero dita intorno a un’asola che deve essere liberata; tu invece cerchi ancora gli occhi miei per rintracciare la linea di un orizzonte che non c’è.
Hai le mani fredde ed io che te le afferro non so se mi gira abbastanza sangue nelle vene per scaldarti ancora.
Se potessi, per stanchezza più che per convinzione, cancellerei tutto quello che c’è stato prima di quest’attimo preciso, solo per assaporare la sensazione di sentirmi più leggera e chiederti di abbracciarmi.
Per quanto sai essere sfacciato e passionale nell’intimità altre volte sembri inutilmente cerimonioso; adesso, per esempio, mi accarezzi la pelle come se il mio corpo ti fosse sconosciuto e scambi i fremiti che pure mi procuri per una debolezza che invece non ho più.
Sento il rumore degli ingranaggi nella tua testa anche se non so quale altro pensiero stai fabbricando. Vorrei stessi zitto ma so che non lo farai.
«Che cosa provi per me?»
Non ho intenzione di risponderti, Luca, non in questa vita, non questa sera, non ora almeno. Una risposta non l’avrai perché non so neppure se una risposta c’è.
Mentre premo la mia bocca sulla tua mi sembra di essere arrivata; non so dove sono ma è come se un viaggio fosse terminato. Riconosco a me stessa che sei il nord sulla mia bussola ed ora non m’importa sapere se l’ago gira a vuoto insieme alla mia vita.
Dischiudo le labbra per invitarti a entrare e vengo a cercarti, accarezzando la tua lingua con la mia.
In un bacio tutte le parole cui ti aggrappi mi appaiono uno spreco.
Ho fame, ho sete ed il sapore del tuo alito non mi basta mai; trattengo le tue labbra con i denti come fosse una minaccia, come l’annuncio di quello che sarà.
Il tuo ennesimo interrogativo, finalmente, si infrange qui perché avverto che ti sciogli in un abbraccio un po’ più forte ed il tuo corpo ora sta cercando il mio.
Per un attimo non sento più il vestito tra le gambe e tra un minuto vorrò davvero non sentirlo più. Mi metti addosso sempre la stessa frenesia ed ancora mi stupisco sia così.
Mani nelle mani, ora guido le tue dita su di me perché non ho più tempo da aspettare e voglio amarti come se non ti avessi amato mai. Amarti come tu vuoi e come, probabilmente, non ho saputo fare mai.
Non so quello che pensi e non m’importa se non sai scorgere nel fondo dei miei occhi quella consapevolezza che ora c'è.
Io non potrò mai essere tua più di quanto tu stesso voglia prendere.
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mercoledì 24 dicembre 2008
Duecento gradini - quattro
In fondo mi sta bene anche così, purché la facciamo finita.
Il conforto di poterti odiare mi semplifica la vita e – anche se non ti darò mai questa soddisfazione – posso ammettere che da sola non sarei capace di una catarsi come quella in cui mi hai condotto.
Tu bevi un sorso di vino e mi scruti; io invece ho bisogno di un bicchiere d’acqua e ti volto le spalle. Questa volta sono io a sperare di non trovarti più quando mi girerò.
Invece sembra tu non ne abbia ancora abbastanza.
«Non ti capisco Anna, non ti credo! Hai sempre fatto girare il mondo a tuo piacere ed ora ti aspetti che mi faccia bastare questa risposta?»
Devi essere stupido perché altrimenti avresti già compreso che non ha più senso continuare e che non riuscirai a farmi sentire peggio di così. Provo a cambiare le parole.
«Ma è la verità, credevo di poter fare a meno dei sentimenti.»
«Credevi di poterne fare a meno con me! Lui dov’è?»
Non sei stupido, sei solo uno stronzo! Ecco qual è il tuo problema.
Più che comprendere cos’è andato storto tra di noi ti importa dare sfogo al livore accumulato nei mesi trascorsi, nella tua ostentata dignitosa sofferenza.
Nella tua patetica visione del mondo cerchi ancora il controllo di un territorio che - pur non essendo mai stato tuo – ti secca possa essere stato di qualcun altro.
«Non c’è nessun lui.»
In parte sto mentendo anche se sono tentata di dirti la verità, per la voglia di vedere l’espressione del tuo viso passare da quel grigio ottuso ad un azzurro senziente.
Potrei raccontarti che averlo incontrato è stato, al tempo stesso, un errore ed una rivelazione perché anche così ho capito quanto tu fossi importante e quanto la mia vita fosse già completa.
Potrei dirti che persino lui ora è consapevole di quanto conti per me e, sapendolo, ha fatto l’unica cosa che poteva fare.
Potrei fornirti altre rassicurazioni ma invano perché sento che stai inutilmente pontificando su cose che non sai.
«Che è successo, hai modificato il tuo progetto di vita? Oppure l’ha cambiato lui? Ammesso che ne abbia mai avuto uno che comprendesse anche te!»
Ecco, per l’appunto, fatti che non sai e che, comunque vada, non ti racconterò mai.
Dopo tanti anni sono ancora qui a chiedermi cosa provo davvero per te e per quale ragione non riesco a lasciarti da qualche parte nel passato. Per quanti siano stati i buoni motivi per allontanarci altrettanti ne ho saputo trovare per starti vicino.
Se non è amore questo – o almeno una qualche specie d’amore – allora non so proprio che altro nome abbia.
«Io sono venuta qui, ci sto provando. Dammi tregua». Forse ti aspettavi una reazione più veemente ma non ne ho voglia e, in fondo, mi diverte ancora spiazzarti; non hai mai imparato ad adeguarti ai miei cambi di ritmo nel parlare, nell’agire, persino nel fare l’amore.
«Stai provando a far cosa?» e sei quasi tenero nella tua reazione.
«Non lo so. Mi sembra sia rimasto un nodo da qualche parte alle mie spalle. Vorrei capire se devo stringerlo o scioglierlo per sempre.»
Per la prima volta da quando sono qui sento di aver detto la cosa giusta. Sarà perché sono stata sincera.
Il tuo silenzio è una conferma indiretta di ciò che sto pensando; ora, ti prego, continua a star zitto e vediamo che succede.
«Stavo cercando… sto cercando di fare pulizia nella mia vita e ci sei andato di mezzo anche tu.»
«Sapere che non ce l’avevi con me personalmente mi fa sentire meglio».
Questa te la concedo ma non ti basterà una mezza battuta per venirne fuori; tanto più che hai fatto la tua parte perché le cose andassero a rovescio come sai.
«Anche tu hai fatto le tue scelte e…»
«Certo ma…». Niente ma, per favore stai zitto.
«Aspetta, fammi finire. Anche tu hai commesso errori o, comunque, preso decisioni discutibili. Ora hai scelto la parte della vittima solo perché è più comodo così.»
Mi sento stanchissima adesso ed ho un po’ freddo.
Vorrei non avere più bocca e orecchie solo per far riposare un po’ i pensieri ed invece so che con te non mi sarà possibile.
Forse sei la persona di cui più mi fido al mondo e al tempo stesso quella con cui sento di dover stare sempre in guardia per qualcosa.
Non mi capisco e i fatti dimostrano che non ho saputo capire neanche te, che ora mi guardi con l’aria sempre più stranita.
«Anna dovevi solo dirmi che mi amavi oppure che non era così. Niente più di questo». Hai il respiro affannato ed un’inesauribile scorta di parole. «Qualunque cosa avessi detto sarebbe stata comunque un punto di partenza, in una direzione o nell’altra.»
Hai gli occhi stanchi e, maledizione, sempre un buon odore.
«Qualunque cosa sarebbe stata meglio di saluti frettolosi, messaggi scarabocchiati sulla tastiera di un annoiato cellulare o interminabili silenzi.»
E c’hai ragione pure tu. Ho la nausea anch’io di messaggi al cellulare e contatti che non so più chi sono loro e, di conseguenza, non so più neppure chi sono io.
Se non fosse per te che – sia pure con tutti i tuoi difetti - sei ancora qui ed ancora ti sforzi di ricordarmi quel poco che sono stata e che ho saputo darti di me stessa.
«Invece così hai finito col negarmi tutto. Amore, amicizia, tutto!»
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mercoledì 17 dicembre 2008
Duecento gradini - tre
Vorrei dirti che gran parte di quello che pensi, di quello che dici e persino di ciò che sei ha cambiato per sempre la mia vita e questo è accaduto senza che io me ne accorgessi, è successo anche quando non lo avrei voluto.
Potrei persino fornirti le prove di tutto quello che sto pensando se il farlo avesse un senso e se potessi convincertene in qualche modo.
«Non è vero e lo sai», mi limito a ripetere parole che so di averti già detto in un’altra vita.
«Io non so niente, io non so un cazzo di niente. Io non ho mai saputo quello che ti passava realmente per la testa! Questa è l’unica certezza che ho». Hai gli occhi liquidi ma non lo ammetteresti mai per cui fingo di non essermene accorta e provo ancora ad arrivare da qualche parte dentro di te.
«Tu sai che non è così», mentre mi chiedo se ha senso continuare questa conversazione.
«Quello che so è che la donna di cui ero innamorato se n’è andata con un colpo di telefono perché non valevo neppure il disturbo di un incontro. Quello che so è che prima ancora non ha mai trovato il modo di dirmi cosa provasse per me.»
Se non sapessi chi sei forse avrei paura a restare nella stessa stanza con l’uomo che ho di fronte. Sembri così freddo e razionale che le tue parole assumono un significato diverso da quello che tu vorresti che fosse.
Ti comporti come quei bambini che vogliono fare da soli ma in realtà richiamano l’attenzione dei genitori, come chi domanda aiuto con gli occhi mentre la voce grida di andare via. Siamo ancora al cercarsi e non trovarsi mai!
Chissà se sei sempre stato così oppure se quel rancore che ti sforzi di nascondere ora ti ha svuotato l’anima.
Vorrei dire qualcosa – più per evitarti di aggiungere altro male che per reale voglia di interloquire – ma la tua rabbia controllata me lo impedisce e mi scoraggia.
«E so anche che quella donna è riuscita a lasciarmi senza neppure essere costretta a dirlo… Maledizione, neppure quello hai fatto, ché le parole ho finito col dirmele da solo mentre in sottofondo c’era soltanto il tuo silenzio!»
Sapevo che saremmo arrivati a questo punto e riconosco di non essere preparata; tutta la strada che ho fatto per essere qui - tutti quei gradini ingombri di pensieri - e la salita non è ancora terminata.
«Non potevo fare diversamente allora». Sto mentendo, lo so io e lo sai anche tu che me lo fai notare subito.
«Stronzate. Cosa non potevi fare? Non potevi rimanere oppure non potevi dirmi dei tuoi sentimenti?»
Taccio. Non so cosa rispondere, davvero, non so cos’altro dirti.
Non so neppure se voglio andarmene lasciando le cose al punto in cui sono ora oppure se stasera tanto vale andare fino in fondo e domani davvero volto pagina. E taccio ancora.
«Rispondimi, per favore. Ho bisogno di saperlo, Anna, è un mio diritto saperlo, cazzo!»
«Diritto? Ma che vuol…». Ti prego non ricominciare con le tue inutili lezioni sull’etica della coppia.
«Come puoi essere così arrogante? Come fai a non capire che è importante? Quando si è innamorati certe parole vanno dette… certe carezze vanno fatte… certi momenti devono essere vissuti.»
«Ma…». Lezioni che non ti puoi permettere, ti direi se mi lasciassi parlare.
«Dopo puoi correggere quelle parole, puoi chiarire le situazioni, puoi perfino riprenderti indietro i gesti come se non li avessi mai compiuti… Quando ti accorgi di esserti sbagliata puoi sempre ripensarci e nessuno potrà farci niente.»
Mi sto incazzando davvero e, quel che è peggio, non so se accade per ciò che dici o per lo sforzo che faccio nel non ascoltarti; riesci a far male anche quando non vuoi e quel dolore verso cui mi stai portando io vorrei non sentirlo più.
«Ho il diritto di sapere perché non mi hai concesso niente. Non so se mi hai amato e non so quando hai smesso di farlo. Con i tuoi silenzi hai finito col negare la nostra stessa esistenza e certe volte mi pare di essermi immaginato tutto!»
Neppure mi sono accorta che non c’è più il tuo tavolo tra di noi ed ora mi sei vicino tanto quanto non vorrei; anche le tue mani che mi sollevano il mento mi sembrano un’intimità che non possiamo permetterci.
Così è che ritrovo il sentore del tuo dopobarba, lo stesso che impregnava per giorni tutti i miei golf ed i cuscini del divano.
«Mi hai cancellato ed io non so neppure se sono mai stato reale.»
Stai dicendo qualcosa ma ti sento appena, posso evitare di guardarti, forse riesco a non pensare per un po’ ma di sicuro devo respirare e nel farlo percepisco inesorabilmente anche te, la tua vicinanza, il tuo profumo.
Gli odori sono i ricordi più subdoli tra tutti, i più imprevedibili, quelli che arrivano inaspettati ed hanno la forza di evocare immagini e pensieri, persino di muovere azioni.
«Perché non mi hai mai detto cosa sentivi per me?»
Occhi negli occhi mi sembri anche sincero ma forse sei soltanto disperato ed io magari lo sono più di te.
Quello che vuoi è la mia resa incondizionata all’evidenza di ciò che pure è stato tra di noi a dispetto di una qualunque definizione.
In questo attimo preciso ti detesto per l’angoscia che avverto e per le lacrime di commiserazione che tu non vedi ma ci sono.
«Perché non lo so fare, cazzo, non lo so fare. Non ne sono capace o almeno pensavo di non esserlo, pensavo di poterne fare a meno.»
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sabato 6 dicembre 2008
"Il movimento del dare" di Fiorella Mannoia
Pareti dipinte con una calda tonalità di arancione, magari screziate dalla particolare lavorazione di un sapiente artigiano. Una luce indiretta che sale dal pavimento per illuminare gli occhi senza affaticare lo sguardo. Un calore avvolgente che non si trova in un tecnologico impianto ma è quello che vecchie mura in pietra, arroventate dal sole del mattino, dolcemente restituiscono alla sera.
Se la signora Mannoia fosse un luogo - una stanza in cui potersi rifugiare - io lo immaginerei così perché queste sono alcune delle sensazioni che la sua voce sa ispirare.
Sette anni di attesa, otto autori diversi, dieci brani inediti ed una sapienza interpretativa che, ancora una volta, riesce ad imprimere sulle canzoni un segno di assoluta qualità.
Una capacità che risalta anche quando il brano può sembrare un vestito tagliato male (Jovanotti) oppure è oggettivamente un pezzo trascurabile (Daniele).
Già dopo il primo attacco di chitarra donatole da Ligabue (Io posso dire la mia sugli uomini, ideale prosieguo di Quello che le donne non dicono) la sua carezza vocale comincia ad accompagnare anche l’ascoltatore più distratto, proseguendo per l’intera durata del disco senza cali di intensità.
Così è che l’interprete romana ritrova (e noi con lei) vecchi compagni di strada come Fossati (La bella strada), sapienti celebratori come il maestro Battiato ed il vate Sgalambro (Il movimento del dare) e interessanti realtà con l’ormai affermato Ferro (menzione d’onore alla sua Il re di chi ama troppo).
Tacendo, ma solo per necessità di sintesi, del superbo e consueto apporto dell’amico Piero Fabrizi (ben tre brani, Primavera, Cuore di pace e Sogno di Ali) o del contributo del pugliese Bungaro (bellissima la sua Fino a che non finisce).
L’ennesima conferma che la musica italiana – sapendolo fare – può vivere non di soli cantautori ma anche di interpreti raffinati.
In conclusione un disco da ascoltare più volte per apprezzarne anche i passaggi più evocativi e, soprattutto, per godersi l’abbraccio di una voce suadente… che ti racconta le donne… in una stanza segreta...
Guardo in faccia il sole
Fino a lacrimare
Fino a che si vedrà
Chi per primo abbassa gli occhi…
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giovedì 4 dicembre 2008
Duecento gradini - due
Invece non apri bocca e continui a guardarmi perplesso e diffidente.
Però da questa impasse dobbiamo uscirne in qualche modo ed allora mi carico di un coraggio che non ho.
«Ti ricordi di me?»
La frase che mi hai scritto ieri è la prima cosa che mi è venuta in mente ma, lo giuro, volevo fare la spiritosa solo per alleggerire un po’ la tensione. Permaloso come sei chissà cosa starai pensando adesso.
«Si… abbastanza». Non è un granché come risposta ma almeno una cosa l’hai detta. Sappiamo entrambi che puoi fare di meglio ma credo tocchi ancora a me rimboccarmi metaforiche maniche.
«Ho pensato su quel foglio non ci fosse altro spazio da riempire e preferisco non cominciarne un altro». Più di questo ora non saprei cosa dirti e, francamente, non so cos’altro potresti domandarmi.
«Già… Vuoi entrare?» Il tuo entusiasmo è contagioso come un virus - nel senso letterale dell’espressione - e vorrei dirtelo anche se la cosa non è propriamente un complimento.
«Pensavo non me l’avresti chiesto».
Entro in casa passandoti volutamente troppo vicino nell’inutile tentativo di provocare una reazione che non c’è e che peraltro sapevo non ci sarebbe stata. Detesto quando mi sento in difficoltà e finisco col comportarmi stupidamente come un uomo.
Nel chiarore soffuso della tua luce preferita riconosco le stampe sulle pareti del corridoio ed il cd che gira nello stereo; riconosco gli oggetti, gli odori e perfino i ricordi che ho lasciato in questa casa.
Mi ritrovo di nuovo nella tua cucina e, mentre sento il volume della musica che si abbassa, avverto i tuoi passi alle mie spalle. Soprattutto percepisco una straniante sensazione di familiarità in un posto che credevo non essere più mio.
«Ancora Ikea?» e sto indicando un anonimo orologio alla parete.
La tua risposta è solo un cenno ed io comincio a sentirmi davvero a disagio. Intanto guardo la bottiglia che è sul tavolo e ne apprezzo, chissà poi perché, i riflessi di colore che si allungano sul piano in legno chiaro.
«Me ne offri un goccio?»
Mentre apri la credenza mi volti le spalle e sembra che tu voglia impiegarci il maggior tempo possibile, come se il non guardarmi bastasse a farmi scomparire.
Mi piace la destrezza con cui maneggi il calice e lo riempi. Mi piace meno lo sguardo che segue il mio bere perché mi fai sentire come il personaggio di un incubo di Kubrick.
Vorrei andare via proprio in questo momento e mentre lo sto pensando tu decidi di parlare.
«Che vuoi Anna?» mi chiedi e c'è quasi cattiveria nella tua voce.
Se mi avessi schiaffeggiato forse avresti fatto meno rumore, forse avrei potuto anche far tacere quel rancore che mi monta dentro per tutto il male che ti ho fatto e per quello che hai saputo ricambiarmi.
La domanda è disarmante nella sua apparente banalità ed io non so davvero cosa dire. Non era così che doveva andare, non avevo pensato a questo salendo le tue dannate scale.
Il tuo vino ha il sapore dell’estate e della frutta rossa ma non riesce a portar via quel sentore amaro dalla bocca ed è comunque una pausa troppo breve tra pensieri troppo densi.
«Volevo vederti… parlare un po’... di noi». La consapevolezza di dire cose sbagliate sta diventando una costante della serata; ma ormai l’ho detto.
«Noi è un pronome che tu stessa hai cancellato dal vocabolario!»
Fai una pausa che dovrebbe essere ad effetto ma, quasi vorrei dirtelo, non lo è affatto. Ti odio quando fai così, ti detesto con tutta me stessa!
Quando parlarti diventa estenuante come sostenere un colloquio di ammissione, quando sottolinei in rosso o in blu le frasi fuori posto secondo la tua personale convenienza, quando pretendi di correggere persino la sintassi dei miei pensieri.
Tante della nostre discussioni sono cominciate in questo modo e, per quanto io abbia sempre saputo che la tua è solo una corazza difensiva, non credo di poterne sopportare il peso ancora a lungo.
Ma sono davvero curiosa di sapere ciò che pensi e posso solo continuare a chiedermelo oppure domandarlo a te.
«Perché hai scritto quelle cose? Le pensi davvero? Sul serio credi possa scordarmi di te?»
Nel frattempo sento i tuoi occhi sul mio corpo come fossero dita che mi scorrono addosso ed avverto un brivido dimenticato. Sarà per questo che mentre mi rispondi la tua voce suona meno dura, anche solo per un attimo.
«Non lo so perché l’ho fatto e, se è per questo, non so neppure perché ho risposto al tuo biglietto… Ma quello che penso io non ha importanza, non l’ha mai avuta».
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venerdì 21 novembre 2008
Duecento gradini
Ormai passo più tempo su questo pianerottolo che sul mio divano.
Se mi hanno visto aggirarmi per queste scale anche ieri sera tra un minuto chiameranno la polizia. C’è una tipa sospetta che vaga nel mio palazzo o qualcosa del genere.
Così mi toccherà spiegare che non sono pericolosa ma solamente strana, ammesso che la mia stramberia non sia una problematica di carattere sociale.
Mi trovo qui perché non so ancora se bussare a casa del mio ex quasi-grande-amore o qualcosa del genere. Già me l’immagino la faccia del poliziotto…
Ieri sera, quando sono venuta a lasciargli quel primo messaggio forse un po’ banale, non avevo ancora un idea precisa di quello che avrei voluto fare; poi, mentre facevo inutili congetture, quello stupido zerbino sonoro ha cominciato a fare un casino inaspettato e sono dovuta correre via, che a momenti mi rompevo una caviglia.
La sua solita mania per i gadget. Mentre lo fisso mi chiedo da quale venditore eBay sia riuscito a scovare questa inutile novità.
Oggi, uscendo per andare al lavoro, ho trovato sotto la mia porta la sua risposta scritta sullo stesso cartoncino che gli avevo lasciato; ammetto che mi ha sorpreso, non tanto per ciò che ha scritto ma per la rapidità con cui ha replicato.
Non sono riuscita a capire come sta ma del resto non so neppure come mi sento io; dalle sue parole mi è parso così triste, avvilito, forse rassegnato. C’è da dire che un po’ ci ha sempre giocato con la malinconia e quindi… Stai a vedere che alla fine è solo incazzato ed io sto per prendermi una porta in faccia!
Nel pomeriggio, quando lo sapevo in ufficio, gli ho recapitato un altro messaggio ma poi mi è venuta la paranoia di aver scritto qualche idiozia. Sarà per questo che alla fine mi sono decisa a venire, bussare alla sua porta e vedere come va.
Però mi fermo un attimo perché il fiatone non si placa ancora.
Detesto fare le scale. L’ascensore del mio palazzo è in manutenzione per cui mi è toccato scendere quattro piani; qui – che poi è la scala di fronte alla mia, dall'altra parte dello stesso androne - sono salita a piedi fino al sesto per non rischiare di trovarmelo davanti all’improvviso.
Ogni volta che prendo le scale mi viene subito l’affanno, il cuore comincia a picchiare veloce e mi sento subito accaldata, cosa che detesto. Sarà colpa del fumo o di una vita non troppo sana ma questa cosa finisce per innervosirmi di più cosicché concludo regolarmente con l’accendere un’altra sigaretta.
Ci sono duecento gradini tra il mio ed il suo appartamento.
Li ho contati tutti e per ognuno mi è venuto in mente un ricordo, una frase, una fotografia presa da un album immaginario.
Per duecento volte mi sono chiesta cosa fosse giusto fare, cercando un buon motivo per proseguire oppure uno migliore per tornare indietro.
Duecento domande incomplete ed altrettante risposte a metà.
Tra me e lui ora c’è solo qualche metro di distanza ed una tonnellata di problemi; dall’altra parte della porta sento musica nell’aria ma non riesco a concentrarmi per seguirne la melodia.
Ancora un momento e vado. Mi sistemo i capelli ed il vestito poi, mentre tiro su le calze sotto gli stivali di vernice, annoto mentalmente di non comprare più questi collant perché hanno una cucitura che mi da fastidio.
Se Valeria mi vedesse ora riuscirebbe a trovare un modo simpatico per insultarmi; come capita nello spogliatoio dopo lo spinning oppure durante qualche venerdì sera particolarmente fortunato, quando i discorsi sulla vita e sugli uomini hanno più alcol che parole.
Non mi pare di aver esagerato, penso mentre guardo il mio riflesso scuro sulla porta dell’ascensore; non sono certo in tiro ma neppure volevo mettermi i jeans. Il vestito è nero, semplice, un po’ stretch e mi fa un bel paio di tette senza bisogno di strizzarmi in un reggiseno magico.
Ho tirato su i capelli perché a lui piacciono così ed ho un profumo caldo che piace molto a me; non ho tacchi strategici ma, a pensarci bene, Valeria avrebbe a ragione a darmi addosso. Tanto più che ha una concezione raso terra di tutto il genere maschile, tipo che basta una sola minigonna per compromettere irrimediabilmente tutte le loro - povere, dico io, poche, corregge lei – sinapsi.
Non faccio in tempo a suonare il campanello perché, dato il persistente latrato elettronico, sento già i suoi passi nel corridoio.
In un attimo si rende conto della mia esistenza e fa una smorfia talmente buffa che ora sembra solo uno che per strada ha sbattuto la faccia contro un palo ed ancora non capisce come.
Cerco di sorridere perché non so bene cosa dire e perché ora mi fa una tale tenerezza che lo abbraccerei all’istante.
[continua... forse]
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lunedì 10 novembre 2008
“Non avevo capito niente” di Diego De Silva
Vincenzo vive in un libro e fa l’avvocato anzi è un avvocato.
A proposito, direbbe sempre lui, mi devo ricordare di chiamare quella furba della signora Pallucca per i soldi. Ma questa è tutta un’altra storia.
Vincenzo è così, uno che parla come pensa e si sa che pensando non è che stiamo attenti ogni volta alla punteggiatura, alla consecutio temporum oppure alla coerenza logica tra il concetto di partenza e quello di arrivo. Eppure pensiamo ugualmente e in certe occasioni i pensieri meritano di diventare parole. E le parole di essere scritte.
Certe volte Vincenzo mi telefona, mi chiede se sono impegnato o se posso parlare (anche quando gli rispondo che non posso lui continua comunque) e poi mi dice qualcosa che non mi aspetto e che mi spiazza completamente.
Come quando, dopo un litigio con Nives, ha tirato fuori quella storia dell’immunità sentimentale (che, cito a memoria, sarebbe una prerogativa delle stronze, di farsi amare all’infinito dando in cambio poco più di niente). Voglio dire, a una definizione così che altro si può aggiungere?
Oppure quando - dopo aver avuto il suo personale miracolo di San Gennaro, cioè dopo che quella dea di Alessandra gli ha dato il suo numero – ha dichiarato che noi siamo uomini-outlet, viviamo male il rapporto con l’attualità, perennemente in saldo e per questo patologicamente scettici rispetto alla possibilità che una gran figa ci corteggi.
Che ancora devo decidere se arrabbiarmi perché usando il plurale mi ha accomunato a sé oppure congratularmi con me stesso per avere un amico che mi conosce tanto bene da potermi offendere con affetto.
Insomma Vincenzo è come fosse il lubrificante dei miei ingranaggi mentali; conoscerlo mi serve ad evitare di surriscaldarmi e di grippare. È il mio meccanico della quotidianità.
Lui intanto si divide l’esistenza tra l’avvocatura, il vivere a Napoli (che di per sé è un'altra forma di lavoro), la quasi ex moglie, i suoi attuali due figli, qualche amico ed un amore nuovo che – non lo ammetterà mai – lo fa sentire inaspettatamente felice.
Parlando di amici volevo presentarvi anche Diego De Silva, che a sua volta conosce un tale di cui dimentico sempre il nome, uno che fa l’editor per Einaudi…
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martedì 4 novembre 2008
È tardi
A raccontare sogni e desideri
a chiedere attenzioni,
per ricercare
tenerezze e baci
di sentimenti accesi
e di passioni.
Ho fatto tardi ormai
tu non ascolti, anzi
nemmeno te ne accorgi.
Mai sei stata mia sul serio
eppure ti ho persa per davvero.
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mercoledì 29 ottobre 2008
"Fuori da un evidente destino" di Giorgio Faletti
Poi, dopo che la chiamata l’hai fatta, capisci che ne è valsa la pena e che quell’amico ha saputo raccontarti ancora una storia interessante.
Fatta questa breve (inutile) premessa resta da dire che nel libro c’è una storia, anzi una Bella Storia. Una fiaba per quel fanciullino che dovrebbe essere ancora vivo, da qualche parte dentro di noi.
Ciò non significa che la realtà contemporanea sia estranea al romanzo; semplicemente l’autore non la pone al centro della narrazione ma piuttosto la utilizza al fine di evidenziare un concetto semplice ed utopistico: il futuro sarà un posto migliore se avremo fatto pace col passato.
L’oggi diventa un pretesto per ritornare a ieri – quello dei singoli personaggi ma anche quello inteso come trascorso storico – cercando di ritrovare, proprio come possiamo immaginare farebbe un nativo americano, la pista smarrita o almeno ricordare il momento in cui la si è persa.
In questo viaggio fantastico ci si porta appresso una bisaccia piena dei soliti affanni – il desiderio di libertà piuttosto che l’amore incondizionato, la cupidigia assoluta oppure la malvagità più bieca - solo per avere la conferma che questi da sempre sono il motore che muove il mondo e le altre cose.
La madre Terra intanto, più o meno pazientemente, sopporta il passaggio di tutti quanti noi; di coloro che cercano di sfuggirle (come il protagonista che infatti si rifugia nel volo), di quelli che provano ad abusarne (come l’ignobile speculatore), dei bambini che ne sono allegramente ignari o, infine, degli animali che solo in apparenza ne sono inconsapevoli (come quei cani che non abbaiano mai…).
Insomma metafora e sintesi delle umane storie – quelle vere e quelle leggendarie – inserita in una cornice così affascinante da farti venire voglia di rivedere quegli stessi paesaggi in qualche classico western.
Così mi ritrovo al tramonto, da qualche parte nel deserto rosso dell’Arizona, mentre un vecchio navajo sta cercando di spiegarmi che… le persone non cambiano. Ma a volte si ritrovano.
E alla fine credo che abbia ragione lui.
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venerdì 24 ottobre 2008
Ti ricordi di me? - cinque
Ho la gola secca e bevo un sorso di vino per necessità più che per desiderio. Attraverso il bicchiere vedo la tua immagine leggermente distorta ed è come se ti guardassi per la prima volta da quando sei entrata.
Indossi un abito nero di maglina con uno scollo tondo ed un motivo a piccoli graffiti bianchi che non riesco a indovinare; ricordo questo vestito che disegna ogni centimetro del tuo corpo e, arrendendomi all’evidenza, posso solo ammettere che sei bellissima.
Sarà per contrappunto a questa mia rinnovata debolezza che sento le parole uscirmi dalla bocca come un taglio di rasoio.
«Non ti capisco Anna, non ti credo! Hai sempre fatto girare il mondo a tuo piacere ed ora ti aspetti che mi faccia bastare questa risposta?»
«Ma è la verità, credevo di poter fare a meno dei sentimenti.»
«Credevi di poterne fare a meno con me! Lui dov’è?» Mentre te lo chiedo impazzisco al pensiero che qualcun altro possa aver avuto ciò che a me è stato sempre negato.
«Non c’è nessun lui», ma stai mentendo.
«Non più almeno» e questa già assomiglia ad una mezza verità.
«Che è successo, hai modificato il tuo progetto di vita? Oppure l’ha cambiato lui? Ammesso che ne abbia mai avuto uno che comprendesse anche te!»
Hai ripreso a fissarmi in silenzio e questa volta il tuo sguardo è freddo ed incolore. Forse ho esagerato ma più che altro la mia è stata una perfidia inutile perché tanto non saprò mai la verità.
«Io sono venuta qui, ci sto provando. Dammi tregua.»
«Stai provando a far cosa?»
«Non lo so. Mi sembra sia rimasto un nodo da qualche parte alle mie spalle. Vorrei capire se devo stringerlo o scioglierlo per sempre.»
Taccio ma per come mi sento anche la metafora di qualcosa di indefinito che ci lega mi sembra un tormento cui non mi è possibile rinunciare.
«Stavo cercando… sto cercando di fare pulizia nella mia vita e ci sei andato di mezzo anche tu.»
«Sapere che non ce l’avevi con me personalmente mi fa sentire meglio». Battuta fiacca lo so, stasera invece il pubblico è esigente.
«Anche tu hai fatto le tue scelte e…»
«Certo ma…», la replica non mi riesce e forse è meglio così.
«Aspetta, fammi finire. Anche tu hai commesso errori o, comunque, preso decisioni discutibili. Ora hai scelto la parte della vittima solo perché è più comodo così.»
In realtà entrambi abbiamo usato tutti i ruoli disponibili e lo abbiamo fatto credendo di essere tanto bravi dal non farci male nei vari cambi d’abito che la vita ci ha richiesto.
Non mi sento una vittima se non di me stesso ma i fatti hanno ampiamente dimostrato quale attore incapace io sia.
«Anna dovevi solo dirmi che mi amavi oppure che non era così. Niente più di questo. Qualunque cosa avessi detto sarebbe stata comunque un punto di partenza, in una direzione o nell’altra.»
Non so neppure perché ti sto raccontando pensieri incontrati nel buio di molte notti insonni.
«Qualunque cosa sarebbe stata meglio di saluti frettolosi, messaggi scarabocchiati sulla tastiera di un annoiato cellulare o interminabili silenzi.»
Davvero non so dove ho trovato l’energia per arrivare fin qui ma ormai stiamo raggiungendo il capolinea.
«Invece così hai finito col negarmi tutto. Amore, amicizia, tutto!»
«La verità è che abbiamo perso tempo e il tempo alla fine si è vendicato». Te lo concedo, almeno su una cosa siamo d’accordo. Ma c’è dell’altro e tanto vale che te lo dica.
«La verità è che ti sei lasciata governare dall’orgoglio con la stessa stupidità con cui un uomo si fa comandare dal suo uccello.»
«Non ricordavo quanto fossi…»
«Per le decisioni che ho preso sono colpevole io e non l’ho mai negato; per quelle che non ho preso la responsabilità invece è tua. Anche se non vorrai ammetterlo mai!»
«…stronzo.».
«Ed io quanto fossi infida e… bella.»
«Hai parlato sempre al passato, non sei più innamorato di me?»
«Anna…», la mia espressione, per quanto sorpresa, deve essere abbastanza eloquente.
«…vaffanculo. Si, hai ragione, me lo sono cercato.»
Ma stai sorridendo e nonostante tutto lo sto facendo anch’io.
E il mio sorriso si congela nell’istante in cui ti avvicini così tanto che riesco a sentire l’odore della tua pelle.
Ti guardo mentre tu mi guardi e nei tuoi occhi posso sempre e solo perdermi; prima di smarrire la strada ho bisogno di chiedertelo ancora: «Che cosa provi per me?»
La tua risposta, perfetta eppure inutile, è un bacio.
La tua bocca trova la mia giusto in tempo per rubarle le parole.
Come se avessero memoria le labbra da sole sanno dove andare e cosa fare, come se riconoscessero ciò che è stato in ciò che ancora è.
I nostri baci semplicemente sono eterni.
Le mani si cercano e le dita si incrociano senza richiudersi le une sulle altre; i palmi si distendono a liberare una tensione non esprimibile altrimenti. Il nostro modo di toccarci, indelebile come un tatuaggio.
Non so quello che provi e mi aggrappo ad un presente ambiguo per la paura di saperlo o col timore di non scoprirlo più.
Intanto respiro il tuo respiro e mi convinco che baciarti sia la risposta ad un milione di domande.
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mercoledì 22 ottobre 2008
Ti ricordi di me? - quattro
Sulla soglia ci sei tu che mi guardi ed accenni un sorriso.
Non mi capacito di trovarti qui davanti per tanti motivi, non ultimo perché fino a un attimo fa stavo parlando con te nell’apparente tranquillità della mia solitudine.
La musica si sente fin qui e vorrei averla spenta perché la colonna sonora non mi pare adatta al momento.
Resto immobile e so di non avere un’espressione brillante mentre noto che anche quel bastardo del bulldog ora tace ai tuoi piedi.
«Ti ricordi di me?». Sei in scena da cinque secondi e ti sei già presa la battuta migliore.
«Si… abbastanza». E con questa so di essere stato bocciato al corso di improvvisazione.
«Ho pensato su quel foglio non ci fosse altro spazio da riempire e preferisco non cominciarne un altro.»
«Già… Vuoi entrare?»
«Pensavo non me l’avresti chiesto» e intanto ti avvii con disinvoltura in una casa che conoscevi bene.
Mi sento confuso e stupido. Se questa fosse una partita di pallone le squadre sarebbero ancora negli spogliatoi ed io sarei già sotto di un gol.
Abbasso il volume dello stereo e ti raggiungo in cucina mentre ti guardi intorno alla ricerca di ben poche novità.
«Ancora Ikea?», stai indicando un orologio alla parete.
Faccio si con un cenno del capo perché è più semplice che parlare ma mi domando se ora inizieremo a chiacchierare anche del clima.
«Me ne offri un goccio?»
Prendo un bicchiere e verso quanto basta reggendolo solo per lo stelo, come mi hanno insegnato. Ora però non ne posso più!
«Che vuoi Anna?», la voce è un po’ strozzata ma almeno sono riuscito a chiedertelo; per la verità la domanda originaria era che cazzo vuoi e cosa ci fai di nuovo nella mia casa.
Prevedibilmente osservi il silenzio e continui a fissarmi con uno sguardo cui non so dare un nome né un significato.
Che poi – penso mentre bevi il rosso del mio vino che si stempera su quello delle tue labbra – non so neppure perché te l’ho chiesto dato che non potrò credere a nulla di ciò che dirai.
Forse è meglio il silenzio perché almeno ai tuoi mutismi sono abituato; se invece adesso dici una cosa sbagliata non so immaginare come finirà.
«Volevo vederti… parlare un po’... di noi». Ecco, appunto.
«Noi è un pronome che tu stessa hai cancellato dal vocabolario!»
«Perché hai scritto quelle cose? Le pensi davvero? Sul serio credi possa scordarmi di te?»
«Non lo so perché l’ho fatto e, se è per questo, non so neppure perché ho risposto al tuo biglietto… Ma quello che penso io non ha importanza, non l’ha mai avuta». Mi sento già stanchissimo e questa conversazione mi sembra un’inutile crudeltà.
«Non è vero e lo sai.»
«Io non so niente, io non so un cazzo di niente. Io non ho mai saputo quello che ti passava realmente per la testa! Questa è l’unica certezza che ho.»
«Tu sai che non è così.»
Mentre lo dici non mi guardi ed anche questo dettaglio mi ricorda sensazioni spiacevoli che vorrei disperatamente dimenticare.
«Quello che so è che la donna di cui ero innamorato se n’è andata con un colpo di telefono perché non valevo neppure il disturbo di un incontro. Quello che so è che prima ancora non ha mai trovato il modo di dirmi cosa provasse per me.»
Stai per dire qualcosa ma nell’impeto ti anticipo e nel farlo sono già pentito perché temo che dopo non parlerai più.
«E so anche che quella donna è riuscita a lasciarmi senza neppure essere costretta a dirlo… Maledizione, neppure quello hai fatto, ché le parole ho finito col dirmele da solo mentre in sottofondo c’era soltanto il tuo silenzio!»
«Non potevo fare diversamente allora.»
«Stronzate. Cosa non potevi fare? Non potevi rimanere oppure non potevi dirmi dei tuoi sentimenti?»
Silenzio e occhi bassi. Per qualsiasi altra persona al mondo questo atteggiamento sarebbe un’ammissione di responsabilità ma - ormai lo so bene - nel tuo caso stai solo cercando una via d’uscita; magari ti stai anche incazzando perché ti senti messa all’angolo.
«Rispondimi, per favore. Ho bisogno di saperlo, Anna, è un mio diritto saperlo, cazzo!»
«Diritto? Ma che vuol…»
«Come puoi essere così arrogante? Come fai a non capire che è importante? Quando si è innamorati certe parole vanno dette… certe carezze vanno fatte… certi momenti devono essere vissuti.»
«Ma…»
«Dopo puoi correggere quelle parole, puoi chiarire le situazioni, puoi perfino riprenderti indietro i gesti come se non li avessi mai compiuti… Quando ti accorgi di esserti sbagliata puoi sempre ripensarci e nessuno potrà farci niente.»
Ho paura di venirti vicino ma è come se l’altro lato del tavolo fosse troppo distante per farti sentire ciò che ho dentro.
«Ho il diritto di sapere perché non mi hai concesso niente. Non so se mi hai amato e non so quando hai smesso di farlo. Con i tuoi silenzi hai finito col negare la nostra stessa esistenza e certe volte mi pare di essermi immaginato tutto!»
Mi tremano un po’ le mani mentre ti sollevo il viso e ritrovo la setosità della tua pelle come si ritrovano i bei ricordi.
«Mi hai cancellato ed io non so neppure se sono mai stato reale.»
Ho voglia di guardarti ed ho bisogno che tu guardi me.
«Perché non mi hai mai detto cosa sentivi per me?»
«Perché non lo so fare, cazzo, non lo so fare», hai gli occhi lucidi di lacrime che ancora non ci sono e la voce un po’ alterata. «Non ne sono capace o almeno pensavo di non esserlo, pensavo di poterne fare a meno.»
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lunedì 20 ottobre 2008
Ti ricordi di me? - tre
Sono andato a correre sul lungo lago che era presto e la foschia del mattino teneva ancora testa alla luce del sole; ho anche incontrato quella ragazza con cui non sono mai riuscito a scambiare più di un saluto ed un sorriso.
In ufficio sono stato di un’efficienza esemplare tutto il giorno, diligentemente concentrato persino nel difficilissimo compito di fotocopiare documenti e collazionare fascicoli.
Mi sono obbligato a non pensare e, ancora di più, a non speculare inutilmente su avvenimenti completamente al di fuori del mio controllo.
Ora sto tornando a casa con le mani ingombre dai sacchetti della spesa e, mentre attraverso velocemente l’atrio comune ai due edifici, sento che la borsa più pesante sta cedendo pericolosamente.
Mi sono regalato un’altra bottiglia tra quelle di cui ho sentito parlare a lezione, anche se non ho alcuna intenzione di accompagnarla con il ricco abbinamento culinario consigliato. Un po’ di Asiago stagionato e pane pugliese saranno una cena più che onorevole.
Mentre l’ascensore arriva continuo a ripetermi che non accadrà nulla e che non c’è niente per cui valga la pena agitarsi; ora che lo specchio mi tiene compagnia fino al sesto piano posso finalmente ammettere che in parte mi sono preso in giro tutto il giorno.
Così, ostentando un’indifferenza che non ho, mi ritrovo a fissare il bulldog steso sul pavimento che fa la guardia ad un pezzo di carta infilato sotto lo zerbino, giusto all’altezza del suo muso.
Più che sperarlo ho temuto questo momento perché so di essere del tutto impreparato all’incalzare degli eventi.
Dopo aver aperto la porta tiro su il biglietto e mi lascio alle spalle inquietudini vecchie per affrontare preoccupazioni nuove.
Il foglio bianco ripiegato – che riconosco essere lo stesso di ieri – ora si trova sulla penisola in cucina ed è un invito difficile da ignorare.
Nel forno stanno tostando due grosse fette di pane, l’aroma forte del formaggio riempie la stanza ed il vino si sta lentamente ossigenando.
Più che un invito è una provocazione e come tale voglio considerarla prendendomi il lusso di procrastinare ancora un po’ l’inevitabile.
Con eccessiva attenzione scelgo il bicchiere più adatto tra i pochi che posseggo - questa sera non ho intenzione di romperne un altro – e poi verso il vino soffermandomi sui riflessi e sul profumo.
Nel lettore metto su Kisses in the rain di Rick Braun attivando le funzioni random e repeat all; che è un po’ come dire al mio Sam immaginario suona quello che ti pare ma stasera non lasciarmi solo.
La tromba inizia a fare il suo lavoro e a me tocca fingermi determinato. Torno in cucina ed apro il biglietto.
In qualche modo ha trovato lo spazio per aggiungere nuove parole a quello che ci siamo già scritti ma la grafia adesso è più disordinata. Mi occorre un minuto per riuscire a leggere il tutto senza confonderlo con le frasi precedenti; me ne serve qualcuno in più per realizzare che ha davvero scritto ciò vedo.
Mi spiace che il tuo pensiero nei miei confronti sia così negativo... non è vero che quello che dici o scrivi per me non conta... sai benissimo, da sempre, che non è mai stato così...
Inoltre mi ferisce profondamente se ancora una volta leggo che non sai come comportarti con me...
Mi auguro di rivederti presto...
Questa volta neppure un sorso generoso riesce a riempire il vuoto che mi sento dentro e il vino mi sembra amaro e inconsistente.
Se il compatirsi avesse un peso specifico adesso il mio sarebbe superiore a quello dell’uranio ed io ne sarei meritatamente schiacciato.
Rileggo le sue parole senza comprenderne il senso ed anche le mie ora mi sembrano, una volta di più, inutili; con rabbia mi chiedo come ho fatto a crederci di nuovo.
I musicisti sembrano aver capito che aria tira e attaccano il terzo brano del cd, con un titolo quanto mai profetico.
Come può dire che sono io a ferirla profondamente? La nostra storia, tutto ciò che è accaduto, è prova del contrario. Non si tratta di un pensiero negativo, Anna, ma è la realtà di ciò che è stato, di ciò che ancora è nonostante il tempo sia passato.
Da quando ha importanza ciò che penso? Che neppure a dire ti amo sono riuscito a interessarti quel tanto che bastava per averne una risposta, una qualunque.
E poi c’è quell’augurio di rivederci presto, come se le nostre vite fossero ancora comunicanti e la distanza che separa due rampe di scale non fosse ormai incolmabile.
Se sapessi farlo romperei qualcosa solo per sfogarmi un po’ ma sono consapevole di essere mediocre pure in questo e so quanto invece le piacciano temperamenti più impetuosi e travolgenti.
Il cane, intanto, sta abbaiando un’altra volta.
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sabato 18 ottobre 2008
“Ultima sentenza” di John Grisham
Tutto è relativo s’intende però, a paragone dei titoli precedenti, la storia narrata in quest’ultimo romanzo mi sembra conduca il lettore su un percorso forse non brutto ma sostanzialmente inutile.
Naturalmente non sono in discussione lo stile, la tecnica narrativa o la caratterizzazione (seppure a tratti migliorabile) dei personaggi.
Piuttosto è l’intero impianto dell’opera a soffrire della presenza di tanti, troppi, stereotipi; alcuni dei quali peraltro già presenti in altre opere dello stesso autore.
I poveri (questa volta nel senso letterale del termine) avvocati paladini della giustizia. La corrotta multinazionale che ha inquinato, truffato, corrotto e ucciso. Un verdetto favorevole ai primi da ribaltare a tutti i costi in appello.
Nel mezzo qualche centinaio di pagine – poco legal e molto political, se così si può dire – che indottrinano il lettore sui perversi meccanismi del sistema giudiziario statunitense.
Materia per un saggio di fine semestre alla facoltà di scienze politiche ma per un romanzo con ben altre ambizioni, scritto dall’autore giustamente più celebrato del genere, decisamente è un po’ poco.
Con sorpresa durante la lettura ti trovi a chiedere alla foto che è in quarta di copertina dove si vuole andare a parare; lo sguardo dell’ex avvocato di Southaven, però, questa volta è fintamente rassicurante, forse per dovere di difesa nei confronti del suo cliente preferito.
Per fortuna manca l’happy end perché sarebbe stata la classica goccia in un vaso già colmo di ovvietà.
Pubblicato da Pf alle 10:31 1 commenti
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