mercoledì 24 dicembre 2008

Duecento gradini - quattro

Ti allontani di scatto come se quello che ho detto ti avesse colpito fisicamente; come se non sapessi già ciò che ti è piaciuto farmi ammettere, ipocrita che non sei altro.
In fondo mi sta bene anche così, purché la facciamo finita.
Il conforto di poterti odiare mi semplifica la vita e – anche se non ti darò mai questa soddisfazione – posso ammettere che da sola non sarei capace di una catarsi come quella in cui mi hai condotto.
Tu bevi un sorso di vino e mi scruti; io invece ho bisogno di un bicchiere d’acqua e ti volto le spalle. Questa volta sono io a sperare di non trovarti più quando mi girerò.
Invece sembra tu non ne abbia ancora abbastanza.
«Non ti capisco Anna, non ti credo! Hai sempre fatto girare il mondo a tuo piacere ed ora ti aspetti che mi faccia bastare questa risposta?»
Devi essere stupido perché altrimenti avresti già compreso che non ha più senso continuare e che non riuscirai a farmi sentire peggio di così. Provo a cambiare le parole.
«Ma è la verità, credevo di poter fare a meno dei sentimenti.»
«Credevi di poterne fare a meno con me! Lui dov’è?»
Non sei stupido, sei solo uno stronzo! Ecco qual è il tuo problema.
Più che comprendere cos’è andato storto tra di noi ti importa dare sfogo al livore accumulato nei mesi trascorsi, nella tua ostentata dignitosa sofferenza.
Nella tua patetica visione del mondo cerchi ancora il controllo di un territorio che - pur non essendo mai stato tuo – ti secca possa essere stato di qualcun altro.
«Non c’è nessun lui.»
In parte sto mentendo anche se sono tentata di dirti la verità, per la voglia di vedere l’espressione del tuo viso passare da quel grigio ottuso ad un azzurro senziente.
«Non più almeno.» Mi terrò la mia curiosità.
Potrei raccontarti che averlo incontrato è stato, al tempo stesso, un errore ed una rivelazione perché anche così ho capito quanto tu fossi importante e quanto la mia vita fosse già completa.
Potrei dirti che persino lui ora è consapevole di quanto conti per me e, sapendolo, ha fatto l’unica cosa che poteva fare.
Potrei fornirti altre rassicurazioni ma invano perché sento che stai inutilmente pontificando su cose che non sai.
«Che è successo, hai modificato il tuo progetto di vita? Oppure l’ha cambiato lui? Ammesso che ne abbia mai avuto uno che comprendesse anche te!»
Ecco, per l’appunto, fatti che non sai e che, comunque vada, non ti racconterò mai.
Dopo tanti anni sono ancora qui a chiedermi cosa provo davvero per te e per quale ragione non riesco a lasciarti da qualche parte nel passato. Per quanti siano stati i buoni motivi per allontanarci altrettanti ne ho saputo trovare per starti vicino.
Se non è amore questo – o almeno una qualche specie d’amore – allora non so proprio che altro nome abbia.
«Io sono venuta qui, ci sto provando. Dammi tregua». Forse ti aspettavi una reazione più veemente ma non ne ho voglia e, in fondo, mi diverte ancora spiazzarti; non hai mai imparato ad adeguarti ai miei cambi di ritmo nel parlare, nell’agire, persino nel fare l’amore.
«Stai provando a far cosa?» e sei quasi tenero nella tua reazione.
«Non lo so. Mi sembra sia rimasto un nodo da qualche parte alle mie spalle. Vorrei capire se devo stringerlo o scioglierlo per sempre.»
Per la prima volta da quando sono qui sento di aver detto la cosa giusta. Sarà perché sono stata sincera.
Il tuo silenzio è una conferma indiretta di ciò che sto pensando; ora, ti prego, continua a star zitto e vediamo che succede.
«Stavo cercando… sto cercando di fare pulizia nella mia vita e ci sei andato di mezzo anche tu.»
«Sapere che non ce l’avevi con me personalmente mi fa sentire meglio».
Questa te la concedo ma non ti basterà una mezza battuta per venirne fuori; tanto più che hai fatto la tua parte perché le cose andassero a rovescio come sai.
«Anche tu hai fatto le tue scelte e…»
«Certo ma…». Niente ma, per favore stai zitto.
«Aspetta, fammi finire. Anche tu hai commesso errori o, comunque, preso decisioni discutibili. Ora hai scelto la parte della vittima solo perché è più comodo così.»
Mi sento stanchissima adesso ed ho un po’ freddo.
Vorrei non avere più bocca e orecchie solo per far riposare un po’ i pensieri ed invece so che con te non mi sarà possibile.
Forse sei la persona di cui più mi fido al mondo e al tempo stesso quella con cui sento di dover stare sempre in guardia per qualcosa.
Non mi capisco e i fatti dimostrano che non ho saputo capire neanche te, che ora mi guardi con l’aria sempre più stranita.
«Anna dovevi solo dirmi che mi amavi oppure che non era così. Niente più di questo». Hai il respiro affannato ed un’inesauribile scorta di parole. «Qualunque cosa avessi detto sarebbe stata comunque un punto di partenza, in una direzione o nell’altra.»
Hai gli occhi stanchi e, maledizione, sempre un buon odore.
«Qualunque cosa sarebbe stata meglio di saluti frettolosi, messaggi scarabocchiati sulla tastiera di un annoiato cellulare o interminabili silenzi.»
E c’hai ragione pure tu. Ho la nausea anch’io di messaggi al cellulare e contatti che non so più chi sono loro e, di conseguenza, non so più neppure chi sono io.
Se non fosse per te che – sia pure con tutti i tuoi difetti - sei ancora qui ed ancora ti sforzi di ricordarmi quel poco che sono stata e che ho saputo darti di me stessa.
«Invece così hai finito col negarmi tutto. Amore, amicizia, tutto!»
[continua... forse]

mercoledì 17 dicembre 2008

Duecento gradini - tre

Per un attimo penso tu stia interpretando la parte che ti riesce meglio - quella della vittima – e mi pento tardivamente di averti cercato un’altra volta.
Ma c’è qualcosa nell’espressione del tuo viso, nel tono rassegnato della tua voce, che gela il mio compatimento ed inaspettatamente mi sento più vicina di quanto tu possa percepire.
Vorrei dirti che gran parte di quello che pensi, di quello che dici e persino di ciò che sei ha cambiato per sempre la mia vita e questo è accaduto senza che io me ne accorgessi, è successo anche quando non lo avrei voluto.
Potrei persino fornirti le prove di tutto quello che sto pensando se il farlo avesse un senso e se potessi convincertene in qualche modo.
«Non è vero e lo sai», mi limito a ripetere parole che so di averti già detto in un’altra vita.
«Io non so niente, io non so un cazzo di niente. Io non ho mai saputo quello che ti passava realmente per la testa! Questa è l’unica certezza che ho». Hai gli occhi liquidi ma non lo ammetteresti mai per cui fingo di non essermene accorta e provo ancora ad arrivare da qualche parte dentro di te.
«Tu sai che non è così», mentre mi chiedo se ha senso continuare questa conversazione.
«Quello che so è che la donna di cui ero innamorato se n’è andata con un colpo di telefono perché non valevo neppure il disturbo di un incontro. Quello che so è che prima ancora non ha mai trovato il modo di dirmi cosa provasse per me.»
Se non sapessi chi sei forse avrei paura a restare nella stessa stanza con l’uomo che ho di fronte. Sembri così freddo e razionale che le tue parole assumono un significato diverso da quello che tu vorresti che fosse.
Ti comporti come quei bambini che vogliono fare da soli ma in realtà richiamano l’attenzione dei genitori, come chi domanda aiuto con gli occhi mentre la voce grida di andare via. Siamo ancora al cercarsi e non trovarsi mai!
Chissà se sei sempre stato così oppure se quel rancore che ti sforzi di nascondere ora ti ha svuotato l’anima.
Vorrei dire qualcosa – più per evitarti di aggiungere altro male che per reale voglia di interloquire – ma la tua rabbia controllata me lo impedisce e mi scoraggia.
«E so anche che quella donna è riuscita a lasciarmi senza neppure essere costretta a dirlo… Maledizione, neppure quello hai fatto, ché le parole ho finito col dirmele da solo mentre in sottofondo c’era soltanto il tuo silenzio!»
Sapevo che saremmo arrivati a questo punto e riconosco di non essere preparata; tutta la strada che ho fatto per essere qui - tutti quei gradini ingombri di pensieri - e la salita non è ancora terminata.
«Non potevo fare diversamente allora». Sto mentendo, lo so io e lo sai anche tu che me lo fai notare subito.
«Stronzate. Cosa non potevi fare? Non potevi rimanere oppure non potevi dirmi dei tuoi sentimenti?»
Taccio. Non so cosa rispondere, davvero, non so cos’altro dirti.
Non so neppure se voglio andarmene lasciando le cose al punto in cui sono ora oppure se stasera tanto vale andare fino in fondo e domani davvero volto pagina. E taccio ancora.
«Rispondimi, per favore. Ho bisogno di saperlo, Anna, è un mio diritto saperlo, cazzo!»
«Diritto? Ma che vuol…». Ti prego non ricominciare con le tue inutili lezioni sull’etica della coppia.
«Come puoi essere così arrogante? Come fai a non capire che è importante? Quando si è innamorati certe parole vanno dette… certe carezze vanno fatte… certi momenti devono essere vissuti.»
«Ma…». Lezioni che non ti puoi permettere, ti direi se mi lasciassi parlare.
«Dopo puoi correggere quelle parole, puoi chiarire le situazioni, puoi perfino riprenderti indietro i gesti come se non li avessi mai compiuti… Quando ti accorgi di esserti sbagliata puoi sempre ripensarci e nessuno potrà farci niente.»
Mi sto incazzando davvero e, quel che è peggio, non so se accade per ciò che dici o per lo sforzo che faccio nel non ascoltarti; riesci a far male anche quando non vuoi e quel dolore verso cui mi stai portando io vorrei non sentirlo più.
«Ho il diritto di sapere perché non mi hai concesso niente. Non so se mi hai amato e non so quando hai smesso di farlo. Con i tuoi silenzi hai finito col negare la nostra stessa esistenza e certe volte mi pare di essermi immaginato tutto!»
Neppure mi sono accorta che non c’è più il tuo tavolo tra di noi ed ora mi sei vicino tanto quanto non vorrei; anche le tue mani che mi sollevano il mento mi sembrano un’intimità che non possiamo permetterci.
Così è che ritrovo il sentore del tuo dopobarba, lo stesso che impregnava per giorni tutti i miei golf ed i cuscini del divano.
«Mi hai cancellato ed io non so neppure se sono mai stato reale.»
Stai dicendo qualcosa ma ti sento appena, posso evitare di guardarti, forse riesco a non pensare per un po’ ma di sicuro devo respirare e nel farlo percepisco inesorabilmente anche te, la tua vicinanza, il tuo profumo.
Gli odori sono i ricordi più subdoli tra tutti, i più imprevedibili, quelli che arrivano inaspettati ed hanno la forza di evocare immagini e pensieri, persino di muovere azioni.
«Perché non mi hai mai detto cosa sentivi per me?»
Occhi negli occhi mi sembri anche sincero ma forse sei soltanto disperato ed io magari lo sono più di te.
Quello che vuoi è la mia resa incondizionata all’evidenza di ciò che pure è stato tra di noi a dispetto di una qualunque definizione.
In questo attimo preciso ti detesto per l’angoscia che avverto e per le lacrime di commiserazione che tu non vedi ma ci sono.
«Perché non lo so fare, cazzo, non lo so fare. Non ne sono capace o almeno pensavo di non esserlo, pensavo di poterne fare a meno.»
[continua... forse]

sabato 6 dicembre 2008

"Il movimento del dare" di Fiorella Mannoia

Pareti dipinte con una calda tonalità di arancione, magari screziate dalla particolare lavorazione di un sapiente artigiano. Una luce indiretta che sale dal pavimento per illuminare gli occhi senza affaticare lo sguardo. Un calore avvolgente che non si trova in un tecnologico impianto ma è quello che vecchie mura in pietra, arroventate dal sole del mattino, dolcemente restituiscono alla sera.
Se la signora Mannoia fosse un luogo - una stanza in cui potersi rifugiare - io lo immaginerei così perché queste sono alcune delle sensazioni che la sua voce sa ispirare.
Sette anni di attesa, otto autori diversi, dieci brani inediti ed una sapienza interpretativa che, ancora una volta, riesce ad imprimere sulle canzoni un segno di assoluta qualità.
Una capacità che risalta anche quando il brano può sembrare un vestito tagliato male (Jovanotti) oppure è oggettivamente un pezzo trascurabile (Daniele).
Già dopo il primo attacco di chitarra donatole da Ligabue (Io posso dire la mia sugli uomini, ideale prosieguo di Quello che le donne non dicono) la sua carezza vocale comincia ad accompagnare anche l’ascoltatore più distratto, proseguendo per l’intera durata del disco senza cali di intensità.
Così è che l’interprete romana ritrova (e noi con lei) vecchi compagni di strada come Fossati (La bella strada), sapienti celebratori come il maestro Battiato ed il vate Sgalambro (Il movimento del dare) e interessanti realtà con l’ormai affermato Ferro (menzione d’onore alla sua Il re di chi ama troppo).
Tacendo, ma solo per necessità di sintesi, del superbo e consueto apporto dell’amico Piero Fabrizi (ben tre brani, Primavera, Cuore di pace e Sogno di Ali) o del contributo del pugliese Bungaro (bellissima la sua Fino a che non finisce).
L’ennesima conferma che la musica italiana – sapendolo fare – può vivere non di soli cantautori ma anche di interpreti raffinati.
In conclusione un disco da ascoltare più volte per apprezzarne anche i passaggi più evocativi e, soprattutto, per godersi l’abbraccio di una voce suadente… che ti racconta le donne… in una stanza segreta...

Guardo in faccia il sole
Fino a lacrimare
Fino a che si vedrà
Chi per primo abbassa gli occhi…

giovedì 4 dicembre 2008

Duecento gradini - due

Mi auguro che tu dica presto qualcosa – qualsiasi cosa – pur di interrompere l’eternità di questo imbarazzante minuto.
Invece non apri bocca e continui a guardarmi perplesso e diffidente.
Però da questa impasse dobbiamo uscirne in qualche modo ed allora mi carico di un coraggio che non ho.
«Ti ricordi di me?»
La frase che mi hai scritto ieri è la prima cosa che mi è venuta in mente ma, lo giuro, volevo fare la spiritosa solo per alleggerire un po’ la tensione. Permaloso come sei chissà cosa starai pensando adesso.
«Si… abbastanza». Non è un granché come risposta ma almeno una cosa l’hai detta. Sappiamo entrambi che puoi fare di meglio ma credo tocchi ancora a me rimboccarmi metaforiche maniche.
«Ho pensato su quel foglio non ci fosse altro spazio da riempire e preferisco non cominciarne un altro». Più di questo ora non saprei cosa dirti e, francamente, non so cos’altro potresti domandarmi.
«Già… Vuoi entrare?» Il tuo entusiasmo è contagioso come un virus - nel senso letterale dell’espressione - e vorrei dirtelo anche se la cosa non è propriamente un complimento.
«Pensavo non me l’avresti chiesto».
Entro in casa passandoti volutamente troppo vicino nell’inutile tentativo di provocare una reazione che non c’è e che peraltro sapevo non ci sarebbe stata. Detesto quando mi sento in difficoltà e finisco col comportarmi stupidamente come un uomo.
Nel chiarore soffuso della tua luce preferita riconosco le stampe sulle pareti del corridoio ed il cd che gira nello stereo; riconosco gli oggetti, gli odori e perfino i ricordi che ho lasciato in questa casa.
Mi ritrovo di nuovo nella tua cucina e, mentre sento il volume della musica che si abbassa, avverto i tuoi passi alle mie spalle. Soprattutto percepisco una straniante sensazione di familiarità in un posto che credevo non essere più mio.
«Ancora Ikea?» e sto indicando un anonimo orologio alla parete.
La tua risposta è solo un cenno ed io comincio a sentirmi davvero a disagio. Intanto guardo la bottiglia che è sul tavolo e ne apprezzo, chissà poi perché, i riflessi di colore che si allungano sul piano in legno chiaro.
«Me ne offri un goccio?»
Mentre apri la credenza mi volti le spalle e sembra che tu voglia impiegarci il maggior tempo possibile, come se il non guardarmi bastasse a farmi scomparire.
Mi piace la destrezza con cui maneggi il calice e lo riempi. Mi piace meno lo sguardo che segue il mio bere perché mi fai sentire come il personaggio di un incubo di Kubrick.
Vorrei andare via proprio in questo momento e mentre lo sto pensando tu decidi di parlare.
«Che vuoi Anna?» mi chiedi e c'è quasi cattiveria nella tua voce.
Se mi avessi schiaffeggiato forse avresti fatto meno rumore, forse avrei potuto anche far tacere quel rancore che mi monta dentro per tutto il male che ti ho fatto e per quello che hai saputo ricambiarmi.
La domanda è disarmante nella sua apparente banalità ed io non so davvero cosa dire. Non era così che doveva andare, non avevo pensato a questo salendo le tue dannate scale.
Il tuo vino ha il sapore dell’estate e della frutta rossa ma non riesce a portar via quel sentore amaro dalla bocca ed è comunque una pausa troppo breve tra pensieri troppo densi.
«Volevo vederti… parlare un po’... di noi». La consapevolezza di dire cose sbagliate sta diventando una costante della serata; ma ormai l’ho detto.
«Noi è un pronome che tu stessa hai cancellato dal vocabolario!»
Fai una pausa che dovrebbe essere ad effetto ma, quasi vorrei dirtelo, non lo è affatto. Ti odio quando fai così, ti detesto con tutta me stessa!
Quando parlarti diventa estenuante come sostenere un colloquio di ammissione, quando sottolinei in rosso o in blu le frasi fuori posto secondo la tua personale convenienza, quando pretendi di correggere persino la sintassi dei miei pensieri.
Tante della nostre discussioni sono cominciate in questo modo e, per quanto io abbia sempre saputo che la tua è solo una corazza difensiva, non credo di poterne sopportare il peso ancora a lungo.
Ma sono davvero curiosa di sapere ciò che pensi e posso solo continuare a chiedermelo oppure domandarlo a te.
«Perché hai scritto quelle cose? Le pensi davvero? Sul serio credi possa scordarmi di te?»
Nel frattempo sento i tuoi occhi sul mio corpo come fossero dita che mi scorrono addosso ed avverto un brivido dimenticato. Sarà per questo che mentre mi rispondi la tua voce suona meno dura, anche solo per un attimo.
«Non lo so perché l’ho fatto e, se è per questo, non so neppure perché ho risposto al tuo biglietto… Ma quello che penso io non ha importanza, non l’ha mai avuta».
[continua... forse]

venerdì 21 novembre 2008

Duecento gradini

Sono ancora qui!
Ormai passo più tempo su questo pianerottolo che sul mio divano.
Se mi hanno visto aggirarmi per queste scale anche ieri sera tra un minuto chiameranno la polizia. C’è una tipa sospetta che vaga nel mio palazzo o qualcosa del genere.
Così mi toccherà spiegare che non sono pericolosa ma solamente strana, ammesso che la mia stramberia non sia una problematica di carattere sociale.
Mi trovo qui perché non so ancora se bussare a casa del mio ex quasi-grande-amore o qualcosa del genere. Già me l’immagino la faccia del poliziotto…
Ieri sera, quando sono venuta a lasciargli quel primo messaggio forse un po’ banale, non avevo ancora un idea precisa di quello che avrei voluto fare; poi, mentre facevo inutili congetture, quello stupido zerbino sonoro ha cominciato a fare un casino inaspettato e sono dovuta correre via, che a momenti mi rompevo una caviglia.
La sua solita mania per i gadget. Mentre lo fisso mi chiedo da quale venditore eBay sia riuscito a scovare questa inutile novità.
Oggi, uscendo per andare al lavoro, ho trovato sotto la mia porta la sua risposta scritta sullo stesso cartoncino che gli avevo lasciato; ammetto che mi ha sorpreso, non tanto per ciò che ha scritto ma per la rapidità con cui ha replicato.
Non sono riuscita a capire come sta ma del resto non so neppure come mi sento io; dalle sue parole mi è parso così triste, avvilito, forse rassegnato. C’è da dire che un po’ ci ha sempre giocato con la malinconia e quindi… Stai a vedere che alla fine è solo incazzato ed io sto per prendermi una porta in faccia!
Nel pomeriggio, quando lo sapevo in ufficio, gli ho recapitato un altro messaggio ma poi mi è venuta la paranoia di aver scritto qualche idiozia. Sarà per questo che alla fine mi sono decisa a venire, bussare alla sua porta e vedere come va.
Però mi fermo un attimo perché il fiatone non si placa ancora.
Detesto fare le scale. L’ascensore del mio palazzo è in manutenzione per cui mi è toccato scendere quattro piani; qui – che poi è la scala di fronte alla mia, dall'altra parte dello stesso androne - sono salita a piedi fino al sesto per non rischiare di trovarmelo davanti all’improvviso.
Ogni volta che prendo le scale mi viene subito l’affanno, il cuore comincia a picchiare veloce e mi sento subito accaldata, cosa che detesto. Sarà colpa del fumo o di una vita non troppo sana ma questa cosa finisce per innervosirmi di più cosicché concludo regolarmente con l’accendere un’altra sigaretta.
Ci sono duecento gradini tra il mio ed il suo appartamento.
Li ho contati tutti e per ognuno mi è venuto in mente un ricordo, una frase, una fotografia presa da un album immaginario.
Per duecento volte mi sono chiesta cosa fosse giusto fare, cercando un buon motivo per proseguire oppure uno migliore per tornare indietro.
Duecento domande incomplete ed altrettante risposte a metà.
Tra me e lui ora c’è solo qualche metro di distanza ed una tonnellata di problemi; dall’altra parte della porta sento musica nell’aria ma non riesco a concentrarmi per seguirne la melodia.
Ancora un momento e vado. Mi sistemo i capelli ed il vestito poi, mentre tiro su le calze sotto gli stivali di vernice, annoto mentalmente di non comprare più questi collant perché hanno una cucitura che mi da fastidio.
Se Valeria mi vedesse ora riuscirebbe a trovare un modo simpatico per insultarmi; come capita nello spogliatoio dopo lo spinning oppure durante qualche venerdì sera particolarmente fortunato, quando i discorsi sulla vita e sugli uomini hanno più alcol che parole.
Non mi pare di aver esagerato, penso mentre guardo il mio riflesso scuro sulla porta dell’ascensore; non sono certo in tiro ma neppure volevo mettermi i jeans. Il vestito è nero, semplice, un po’ stretch e mi fa un bel paio di tette senza bisogno di strizzarmi in un reggiseno magico.
Ho tirato su i capelli perché a lui piacciono così ed ho un profumo caldo che piace molto a me; non ho tacchi strategici ma, a pensarci bene, Valeria avrebbe a ragione a darmi addosso. Tanto più che ha una concezione raso terra di tutto il genere maschile, tipo che basta una sola minigonna per compromettere irrimediabilmente tutte le loro - povere, dico io, poche, corregge lei – sinapsi.
Se sono arrivata fin qui - duecento scalini dopo tutto il male che c’è stato – non è per giocare alla grande seduttrice ma per capire, se mi riesce, cosa si può fare di questa storia e di tutti quanti noi.
Non faccio in tempo a suonare il campanello perché, dato il persistente latrato elettronico, sento già i suoi passi nel corridoio.
Quando apre la porta è arrabbiato; riconosco la solita ruga verticale che gli increspa la fronte giù fino all’attaccatura del naso e gli fa stirare anche un po’ quegli occhi miopi che si ritrova.
In un attimo si rende conto della mia esistenza e fa una smorfia talmente buffa che ora sembra solo uno che per strada ha sbattuto la faccia contro un palo ed ancora non capisce come.
Cerco di sorridere perché non so bene cosa dire e perché ora mi fa una tale tenerezza che lo abbraccerei all’istante.
[continua... forse]

lunedì 10 novembre 2008

“Non avevo capito niente” di Diego De Silva

Volevo farvi conoscere un mio amico, Vincenzo Malinconico.
Vincenzo vive in un libro e fa l’avvocato anzi è un avvocato.
La differenza non è semantica ma sostanziale e se lui fosse qui, a suo modo, saprebbe spiegarvela molto meglio di me (qualcosa del tipo che fai l’avvocato quando c’hai tre segretarie, dieci schiavetti che lavorano e incassi mettendo solo il nome sulle pratiche; sei un avvocato quando stai talmente scoglionato che prendi pure le cause perse e poi ti incazzi con il mondo per averne una vittoria, dimenticandoti di farti pagare).
A proposito, direbbe sempre lui, mi devo ricordare di chiamare quella furba della signora Pallucca per i soldi. Ma questa è tutta un’altra storia.
Vincenzo è così, uno che parla come pensa e si sa che pensando non è che stiamo attenti ogni volta alla punteggiatura, alla consecutio temporum oppure alla coerenza logica tra il concetto di partenza e quello di arrivo. Eppure pensiamo ugualmente e in certe occasioni i pensieri meritano di diventare parole. E le parole di essere scritte.
Certe volte Vincenzo mi telefona, mi chiede se sono impegnato o se posso parlare (anche quando gli rispondo che non posso lui continua comunque) e poi mi dice qualcosa che non mi aspetto e che mi spiazza completamente.
Lui non lo sa ma su quello che racconta ci rifletto per giorni; qualche volta mi sembra di capire ed anche quando non è così sono contento lo stesso di ragionarci sopra.
Come quando, dopo un litigio con Nives, ha tirato fuori quella storia dell’immunità sentimentale (che, cito a memoria, sarebbe una prerogativa delle stronze, di farsi amare all’infinito dando in cambio poco più di niente). Voglio dire, a una definizione così che altro si può aggiungere?
Oppure quando - dopo aver avuto il suo personale miracolo di San Gennaro, cioè dopo che quella dea di Alessandra gli ha dato il suo numero – ha dichiarato che noi siamo uomini-outlet, viviamo male il rapporto con l’attualità, perennemente in saldo e per questo patologicamente scettici rispetto alla possibilità che una gran figa ci corteggi.
Che ancora devo decidere se arrabbiarmi perché usando il plurale mi ha accomunato a sé oppure congratularmi con me stesso per avere un amico che mi conosce tanto bene da potermi offendere con affetto.
Insomma Vincenzo è come fosse il lubrificante dei miei ingranaggi mentali; conoscerlo mi serve ad evitare di surriscaldarmi e di grippare. È il mio meccanico della quotidianità.
Lui intanto si divide l’esistenza tra l’avvocatura, il vivere a Napoli (che di per sé è un'altra forma di lavoro), la quasi ex moglie, i suoi attuali due figli, qualche amico ed un amore nuovo che – non lo ammetterà mai – lo fa sentire inaspettatamente felice.
Parlando di amici volevo presentarvi anche Diego De Silva, che a sua volta conosce un tale di cui dimentico sempre il nome, uno che fa l’editor per Einaudi…
Ottime persone, gente simpatica con cui ti fai l'idea di poter parlare della vita mangiando una pizza a Via dei Tribunali. E credere che non tutto sia perduto.

martedì 4 novembre 2008

È tardi

A raccontare sogni e desideri
a chiedere attenzioni,
per ricercare
tenerezze e baci
di sentimenti accesi
e di passioni.
Ho fatto tardi ormai
tu non ascolti, anzi
nemmeno te ne accorgi.

Mai sei stata mia sul serio
eppure ti ho persa per davvero.

mercoledì 29 ottobre 2008

"Fuori da un evidente destino" di Giorgio Faletti

Il volume è rimasto sul quarto scaffale della libreria per quasi due anni. Come l’appunto di un impegno che non si riesce mai a portare a termine; come quella telefonata da fare ad un amico che però - anche se non lo chiami subito - sai che non ti porterà rancore.
Poi, dopo che la chiamata l’hai fatta, capisci che ne è valsa la pena e che quell’amico ha saputo raccontarti ancora una storia interessante.
Fatta questa breve (inutile) premessa resta da dire che nel libro c’è una storia, anzi una Bella Storia. Una fiaba per quel fanciullino che dovrebbe essere ancora vivo, da qualche parte dentro di noi.
Ciò non significa che la realtà contemporanea sia estranea al romanzo; semplicemente l’autore non la pone al centro della narrazione ma piuttosto la utilizza al fine di evidenziare un concetto semplice ed utopistico: il futuro sarà un posto migliore se avremo fatto pace col passato.
L’oggi diventa un pretesto per ritornare a ieri – quello dei singoli personaggi ma anche quello inteso come trascorso storico – cercando di ritrovare, proprio come possiamo immaginare farebbe un nativo americano, la pista smarrita o almeno ricordare il momento in cui la si è persa.
In questo viaggio fantastico ci si porta appresso una bisaccia piena dei soliti affanni – il desiderio di libertà piuttosto che l’amore incondizionato, la cupidigia assoluta oppure la malvagità più bieca - solo per avere la conferma che questi da sempre sono il motore che muove il mondo e le altre cose.
La madre Terra intanto, più o meno pazientemente, sopporta il passaggio di tutti quanti noi; di coloro che cercano di sfuggirle (come il protagonista che infatti si rifugia nel volo), di quelli che provano ad abusarne (come l’ignobile speculatore), dei bambini che ne sono allegramente ignari o, infine, degli animali che solo in apparenza ne sono inconsapevoli (come quei cani che non abbaiano mai…).
Insomma metafora e sintesi delle umane storie – quelle vere e quelle leggendarie – inserita in una cornice così affascinante da farti venire voglia di rivedere quegli stessi paesaggi in qualche classico western.
Così mi ritrovo al tramonto, da qualche parte nel deserto rosso dell’Arizona, mentre un vecchio navajo sta cercando di spiegarmi che… le persone non cambiano. Ma a volte si ritrovano.
E alla fine credo che abbia ragione lui.

venerdì 24 ottobre 2008

Ti ricordi di me? - cinque

Per un attimo non so come replicare e lascio che le tue parole trovino un loro posto nell’aria della stanza, come fossero frammenti da incastrare da qualche parte tra di noi.
Ho la gola secca e bevo un sorso di vino per necessità più che per desiderio. Attraverso il bicchiere vedo la tua immagine leggermente distorta ed è come se ti guardassi per la prima volta da quando sei entrata.
Indossi un abito nero di maglina con uno scollo tondo ed un motivo a piccoli graffiti bianchi che non riesco a indovinare; ricordo questo vestito che disegna ogni centimetro del tuo corpo e, arrendendomi all’evidenza, posso solo ammettere che sei bellissima.
Sarà per contrappunto a questa mia rinnovata debolezza che sento le parole uscirmi dalla bocca come un taglio di rasoio.
«Non ti capisco Anna, non ti credo! Hai sempre fatto girare il mondo a tuo piacere ed ora ti aspetti che mi faccia bastare questa risposta?»
«Ma è la verità, credevo di poter fare a meno dei sentimenti.»
«Credevi di poterne fare a meno con me! Lui dov’è?» Mentre te lo chiedo impazzisco al pensiero che qualcun altro possa aver avuto ciò che a me è stato sempre negato.
«Non c’è nessun lui», ma stai mentendo.
«Non più almeno» e questa già assomiglia ad una mezza verità.
«Che è successo, hai modificato il tuo progetto di vita? Oppure l’ha cambiato lui? Ammesso che ne abbia mai avuto uno che comprendesse anche te!»
Hai ripreso a fissarmi in silenzio e questa volta il tuo sguardo è freddo ed incolore. Forse ho esagerato ma più che altro la mia è stata una perfidia inutile perché tanto non saprò mai la verità.
«Io sono venuta qui, ci sto provando. Dammi tregua.»
«Stai provando a far cosa?»
«Non lo so. Mi sembra sia rimasto un nodo da qualche parte alle mie spalle. Vorrei capire se devo stringerlo o scioglierlo per sempre.»
Taccio ma per come mi sento anche la metafora di qualcosa di indefinito che ci lega mi sembra un tormento cui non mi è possibile rinunciare.
«Stavo cercando… sto cercando di fare pulizia nella mia vita e ci sei andato di mezzo anche tu.»
«Sapere che non ce l’avevi con me personalmente mi fa sentire meglio». Battuta fiacca lo so, stasera invece il pubblico è esigente.
«Anche tu hai fatto le tue scelte e…»
«Certo ma…», la replica non mi riesce e forse è meglio così.
«Aspetta, fammi finire. Anche tu hai commesso errori o, comunque, preso decisioni discutibili. Ora hai scelto la parte della vittima solo perché è più comodo così.»
In realtà entrambi abbiamo usato tutti i ruoli disponibili e lo abbiamo fatto credendo di essere tanto bravi dal non farci male nei vari cambi d’abito che la vita ci ha richiesto.
Non mi sento una vittima se non di me stesso ma i fatti hanno ampiamente dimostrato quale attore incapace io sia.
«Anna dovevi solo dirmi che mi amavi oppure che non era così. Niente più di questo. Qualunque cosa avessi detto sarebbe stata comunque un punto di partenza, in una direzione o nell’altra.»
Non so neppure perché ti sto raccontando pensieri incontrati nel buio di molte notti insonni.
«Qualunque cosa sarebbe stata meglio di saluti frettolosi, messaggi scarabocchiati sulla tastiera di un annoiato cellulare o interminabili silenzi.»
Davvero non so dove ho trovato l’energia per arrivare fin qui ma ormai stiamo raggiungendo il capolinea.
«Invece così hai finito col negarmi tutto. Amore, amicizia, tutto!»
«La verità è che abbiamo perso tempo e il tempo alla fine si è vendicato». Te lo concedo, almeno su una cosa siamo d’accordo. Ma c’è dell’altro e tanto vale che te lo dica.
«La verità è che ti sei lasciata governare dall’orgoglio con la stessa stupidità con cui un uomo si fa comandare dal suo uccello.»
«Non ricordavo quanto fossi…»
«Per le decisioni che ho preso sono colpevole io e non l’ho mai negato; per quelle che non ho preso la responsabilità invece è tua. Anche se non vorrai ammetterlo mai!»
«…stronzo.».
«Ed io quanto fossi infida e… bella.»
«Hai parlato sempre al passato, non sei più innamorato di me?»
«Anna…», la mia espressione, per quanto sorpresa, deve essere abbastanza eloquente.
«…vaffanculo. Si, hai ragione, me lo sono cercato.»
Ma stai sorridendo e nonostante tutto lo sto facendo anch’io.
E il mio sorriso si congela nell’istante in cui ti avvicini così tanto che riesco a sentire l’odore della tua pelle.
Ti guardo mentre tu mi guardi e nei tuoi occhi posso sempre e solo perdermi; prima di smarrire la strada ho bisogno di chiedertelo ancora: «Che cosa provi per me?»
La tua risposta, perfetta eppure inutile, è un bacio.
La tua bocca trova la mia giusto in tempo per rubarle le parole.
Come se avessero memoria le labbra da sole sanno dove andare e cosa fare, come se riconoscessero ciò che è stato in ciò che ancora è.
I nostri baci semplicemente sono eterni.
Le mani si cercano e le dita si incrociano senza richiudersi le une sulle altre; i palmi si distendono a liberare una tensione non esprimibile altrimenti. Il nostro modo di toccarci, indelebile come un tatuaggio.
Non so quello che provi e mi aggrappo ad un presente ambiguo per la paura di saperlo o col timore di non scoprirlo più.
Intanto respiro il tuo respiro e mi convinco che baciarti sia la risposta ad un milione di domande.

mercoledì 22 ottobre 2008

Ti ricordi di me? - quattro

Sono deciso a distruggere - senza leggerlo - il nuovo messaggio che troverò ma non sono preparato a ciò che mi aspetta quando apro la porta.
Sulla soglia ci sei tu che mi guardi ed accenni un sorriso.
Non mi capacito di trovarti qui davanti per tanti motivi, non ultimo perché fino a un attimo fa stavo parlando con te nell’apparente tranquillità della mia solitudine.
La musica si sente fin qui e vorrei averla spenta perché la colonna sonora non mi pare adatta al momento.
Resto immobile e so di non avere un’espressione brillante mentre noto che anche quel bastardo del bulldog ora tace ai tuoi piedi.
«Ti ricordi di me?». Sei in scena da cinque secondi e ti sei già presa la battuta migliore.
«Si… abbastanza». E con questa so di essere stato bocciato al corso di improvvisazione.
«Ho pensato su quel foglio non ci fosse altro spazio da riempire e preferisco non cominciarne un altro
«Già… Vuoi entrare?»
«Pensavo non me l’avresti chiesto» e intanto ti avvii con disinvoltura in una casa che conoscevi bene.
Mi sento confuso e stupido. Se questa fosse una partita di pallone le squadre sarebbero ancora negli spogliatoi ed io sarei già sotto di un gol.
Abbasso il volume dello stereo e ti raggiungo in cucina mentre ti guardi intorno alla ricerca di ben poche novità.
«Ancora Ikea?», stai indicando un orologio alla parete.
Faccio si con un cenno del capo perché è più semplice che parlare ma mi domando se ora inizieremo a chiacchierare anche del clima.
«Me ne offri un goccio?»
Prendo un bicchiere e verso quanto basta reggendolo solo per lo stelo, come mi hanno insegnato. Ora però non ne posso più!
«Che vuoi Anna?», la voce è un po’ strozzata ma almeno sono riuscito a chiedertelo; per la verità la domanda originaria era che cazzo vuoi e cosa ci fai di nuovo nella mia casa.
Prevedibilmente osservi il silenzio e continui a fissarmi con uno sguardo cui non so dare un nome né un significato.
Che poi – penso mentre bevi il rosso del mio vino che si stempera su quello delle tue labbra – non so neppure perché te l’ho chiesto dato che non potrò credere a nulla di ciò che dirai.
Forse è meglio il silenzio perché almeno ai tuoi mutismi sono abituato; se invece adesso dici una cosa sbagliata non so immaginare come finirà.
«Volevo vederti… parlare un po’... di noi». Ecco, appunto.
«Noi è un pronome che tu stessa hai cancellato dal vocabolario!»
«Perché hai scritto quelle cose? Le pensi davvero? Sul serio credi possa scordarmi di te?»
«Non lo so perché l’ho fatto e, se è per questo, non so neppure perché ho risposto al tuo biglietto… Ma quello che penso io non ha importanza, non l’ha mai avuta». Mi sento già stanchissimo e questa conversazione mi sembra un’inutile crudeltà.
«Non è vero e lo sai.»
«Io non so niente, io non so un cazzo di niente. Io non ho mai saputo quello che ti passava realmente per la testa! Questa è l’unica certezza che ho.»
«Tu sai che non è così.»
Mentre lo dici non mi guardi ed anche questo dettaglio mi ricorda sensazioni spiacevoli che vorrei disperatamente dimenticare.
«Quello che so è che la donna di cui ero innamorato se n’è andata con un colpo di telefono perché non valevo neppure il disturbo di un incontro. Quello che so è che prima ancora non ha mai trovato il modo di dirmi cosa provasse per me.»
Stai per dire qualcosa ma nell’impeto ti anticipo e nel farlo sono già pentito perché temo che dopo non parlerai più.
«E so anche che quella donna è riuscita a lasciarmi senza neppure essere costretta a dirlo… Maledizione, neppure quello hai fatto, ché le parole ho finito col dirmele da solo mentre in sottofondo c’era soltanto il tuo silenzio!»
«Non potevo fare diversamente allora.»
«Stronzate. Cosa non potevi fare? Non potevi rimanere oppure non potevi dirmi dei tuoi sentimenti?»
Silenzio e occhi bassi. Per qualsiasi altra persona al mondo questo atteggiamento sarebbe un’ammissione di responsabilità ma - ormai lo so bene - nel tuo caso stai solo cercando una via d’uscita; magari ti stai anche incazzando perché ti senti messa all’angolo.
«Rispondimi, per favore. Ho bisogno di saperlo, Anna,
è un mio diritto saperlo, cazzo!»
«Diritto? Ma che vuol…»
«Come puoi essere così arrogante? Come fai a non capire che è importante? Quando si è innamorati certe parole vanno dette… certe carezze vanno fatte… certi momenti devono essere vissuti.»
«Ma…»
«Dopo puoi correggere quelle parole, puoi chiarire le situazioni, puoi perfino riprenderti indietro i gesti come se non li avessi mai compiuti… Quando ti accorgi di esserti sbagliata puoi sempre ripensarci e nessuno potrà farci niente.»
Ho paura di venirti vicino ma è come se l’altro lato del tavolo fosse troppo distante per farti sentire ciò che ho dentro.
«Ho il diritto di sapere perché non mi hai concesso niente. Non so se mi hai amato e non so quando hai smesso di farlo. Con i tuoi silenzi hai finito col negare la nostra stessa esistenza e certe volte mi pare di essermi immaginato tutto!»
Mi tremano un po’ le mani mentre ti sollevo il viso e ritrovo la setosità della tua pelle come si ritrovano i bei ricordi.
«Mi hai cancellato ed io non so neppure se sono mai stato reale.»
Ho voglia di guardarti ed ho bisogno che tu guardi me.
«Perché non mi hai mai detto cosa sentivi per me?»
«Perché non lo so fare, cazzo, non lo so fare», hai gli occhi lucidi di lacrime che ancora non ci sono e la voce un po’ alterata. «Non ne sono capace o almeno pensavo di non esserlo, pensavo di poterne fare a meno.»
[continua... forse]

lunedì 20 ottobre 2008

Ti ricordi di me? - tre

Ho fatto tutto ciò che dovevo. Come uno bravo scolaro, fin dal risveglio, ho finito in bella copia tutti i compiti assegnati.
Sono andato a correre sul lungo lago che era presto e la foschia del mattino teneva ancora testa alla luce del sole; ho anche incontrato quella ragazza con cui non sono mai riuscito a scambiare più di un saluto ed un sorriso.
In ufficio sono stato di un’efficienza esemplare tutto il giorno, diligentemente concentrato persino nel difficilissimo compito di fotocopiare documenti e collazionare fascicoli.
Mi sono obbligato a non pensare e, ancora di più, a non speculare inutilmente su avvenimenti completamente al di fuori del mio controllo.
Qualunque cosa, insomma, pur di rimandare a data da destinarsi un inesorabile confronto con inconfessate aspettative.
Ora sto tornando a casa con le mani ingombre dai sacchetti della spesa e, mentre attraverso velocemente l’atrio comune ai due edifici, sento che la borsa più pesante sta cedendo pericolosamente.
Mi sono regalato un’altra bottiglia tra quelle di cui ho sentito parlare a lezione, anche se non ho alcuna intenzione di accompagnarla con il ricco abbinamento culinario consigliato. Un po’ di Asiago stagionato e pane pugliese saranno una cena più che onorevole.
Mentre l’ascensore arriva continuo a ripetermi che non accadrà nulla e che non c’è niente per cui valga la pena agitarsi; ora che lo specchio mi tiene compagnia fino al sesto piano posso finalmente ammettere che in parte mi sono preso in giro tutto il giorno.
Così, ostentando un’indifferenza che non ho, mi ritrovo a fissare il bulldog steso sul pavimento che fa la guardia ad un pezzo di carta infilato sotto lo zerbino, giusto all’altezza del suo muso.
Più che sperarlo ho temuto questo momento perché so di essere del tutto impreparato all’incalzare degli eventi.
Dopo aver aperto la porta tiro su il biglietto e mi lascio alle spalle inquietudini vecchie per affrontare preoccupazioni nuove.
Il foglio bianco ripiegato – che riconosco essere lo stesso di ieri – ora si trova sulla penisola in cucina ed è un invito difficile da ignorare.
Nel forno stanno tostando due grosse fette di pane, l’aroma forte del formaggio riempie la stanza ed il vino si sta lentamente ossigenando.
Più che un invito è una provocazione e come tale voglio considerarla prendendomi il lusso di procrastinare ancora un po’ l’inevitabile.
Con eccessiva attenzione scelgo il bicchiere più adatto tra i pochi che posseggo - questa sera non ho intenzione di romperne un altro – e poi verso il vino soffermandomi sui riflessi e sul profumo.
Nel lettore metto su Kisses in the rain di Rick Braun attivando le funzioni random e repeat all; che è un po’ come dire al mio Sam immaginario suona quello che ti pare ma stasera non lasciarmi solo.
La tromba inizia a fare il suo lavoro e a me tocca fingermi determinato. Torno in cucina ed apro il biglietto.
In qualche modo ha trovato lo spazio per aggiungere nuove parole a quello che ci siamo già scritti ma la grafia adesso è più disordinata. Mi occorre un minuto per riuscire a leggere il tutto senza confonderlo con le frasi precedenti; me ne serve qualcuno in più per realizzare che ha davvero scritto ciò vedo.
Mi spiace che il tuo pensiero nei miei confronti sia così negativo... non è vero che quello che dici o scrivi per me non conta... sai benissimo, da sempre, che non è mai stato così...
Inoltre mi ferisce profondamente se ancora una volta leggo che non sai come comportarti con me...
Mi auguro di rivederti presto...
Questa volta neppure un sorso generoso riesce a riempire il vuoto che mi sento dentro e il vino mi sembra amaro e inconsistente.
Se il compatirsi avesse un peso specifico adesso il mio sarebbe superiore a quello dell’uranio ed io ne sarei meritatamente schiacciato.
Rileggo le sue parole senza comprenderne il senso ed anche le mie ora mi sembrano, una volta di più, inutili; con rabbia mi chiedo come ho fatto a crederci di nuovo.
I musicisti sembrano aver capito che aria tira e attaccano il terzo brano del cd, con un titolo quanto mai profetico.
Come può dire che sono io a ferirla profondamente? La nostra storia, tutto ciò che è accaduto, è prova del contrario. Non si tratta di un pensiero negativo, Anna, ma è la realtà di ciò che è stato, di ciò che ancora è nonostante il tempo sia passato.
Da quando ha importanza ciò che penso? Che neppure a dire ti amo sono riuscito a interessarti quel tanto che bastava per averne una risposta, una qualunque.
E poi c’è quell’augurio di rivederci presto, come se le nostre vite fossero ancora comunicanti e la distanza che separa due rampe di scale non fosse ormai incolmabile.
Se sapessi farlo romperei qualcosa solo per sfogarmi un po’ ma sono consapevole di essere mediocre pure in questo e so quanto invece le piacciano temperamenti più impetuosi e travolgenti.
Il cane, intanto, sta abbaiando un’altra volta.
[continua... forse]

sabato 18 ottobre 2008

“Ultima sentenza” di John Grisham

Dopo aver letto “Il socio” (1991) – ma anche “Il rapporto Pelican” (1992), “L’uomo della pioggia” (1995) o “La giuria” (1996), solo per citare alcuni dei suoi tanti legal thriller, tutti editi da Mondadori – non avrei mai pensato di inserire nella stessa frase le parole Grisham, libro e noia.
Eppure questa volta è così ma, sia chiaro, lo dico con dispiacere.
Tutto è relativo s’intende però, a paragone dei titoli precedenti, la storia narrata in quest’ultimo romanzo mi sembra conduca il lettore su un percorso forse non brutto ma sostanzialmente inutile.
Come percorrere una strada panoramica in una giornata di nebbia: il paesaggio circostante non lo vedremo mai.
Naturalmente non sono in discussione lo stile, la tecnica narrativa o la caratterizzazione (seppure a tratti migliorabile) dei personaggi.
Piuttosto è l’intero impianto dell’opera a soffrire della presenza di tanti, troppi, stereotipi; alcuni dei quali peraltro già presenti in altre opere dello stesso autore.
I poveri (questa volta nel senso letterale del termine) avvocati paladini della giustizia. La corrotta multinazionale che ha inquinato, truffato, corrotto e ucciso. Un verdetto favorevole ai primi da ribaltare a tutti i costi in appello.
Nel mezzo qualche centinaio di pagine – poco legal e molto political, se così si può dire – che indottrinano il lettore sui perversi meccanismi del sistema giudiziario statunitense.
Il tutto passando attraverso il marketing elettorale e la onnipresente attività di lobbying che è l’unica vera responsabile, nel bene e nel male, di qualunque decisione politica o amministrativa del governo americano.
Materia per un saggio di fine semestre alla facoltà di scienze politiche ma per un romanzo con ben altre ambizioni, scritto dall’autore giustamente più celebrato del genere, decisamente è un po’ poco.
Con sorpresa durante la lettura ti trovi a chiedere alla foto che è in quarta di copertina dove si vuole andare a parare; lo sguardo dell’ex avvocato di Southaven, però, questa volta è fintamente rassicurante, forse per dovere di difesa nei confronti del suo cliente preferito.
Per fortuna manca l’happy end perché sarebbe stata la classica goccia in un vaso già colmo di ovvietà.

giovedì 16 ottobre 2008

Ti ricordi di me? - due

Sono trascorsi sei mesi dalla telefonata di cui fa cenno nel biglietto; faccio mentalmente il conto mentre cerco di accendermi una Marlboro nell’aria fredda di questa sera.
Da allora non l’ho più cercata e naturalmente lei non ha cercato me; meglio ancora, io non ho più avuto la forza di inseguirla e lei non aveva alcun motivo per farlo.
La brace si consuma in fretta, una boccata la tiro io ed un’altra la porta via il vento. Anche questo momento durerà poco, penso con rinnovato disfattismo.
La telefonata, in un pomeriggio di fine estate, non era stata una conversazione ma un assalto condotto allo scopo di demolire tutto ciò che poteva esserlo in una relazione: stima, considerazione, amicizia, amore. E l’elenco potrebbe continuare ancora.
Avevo provato a replicare ma era stato anche peggio; al colmo della frustrazione avevo urlato anch’io ma lei aveva riso della mia rabbia. Quando avevo fatto le mie domande dall’altra parte c’era stato il solito agghiacciante silenzio.
Quel giorno, per motivi che solo lei conosce e che io mi sono dannato ad immaginare, aveva semplicemente deciso di distruggere qualcuno ed era soltanto arrivato il mio turno.
Probabilmente perché, per iniziare una nuova vita e un nuovo amore, è più facile lasciarsi alle spalle detriti che, per loro stessa natura, non possono tenerti legato e non rappresentano una valida ragione per guardarsi indietro.
«E fanculo se si tratta delle macerie di un uomo che ti ama, vero Anna?», domando inutilmente ad una pianta di geranio che potrebbe partecipare ad un esperimento sulla mummificazione.
Ho freddo ma mi sforzo di restare fuori ancora un po’ anche se la sigaretta è finita ed i miei pensieri non mi hanno portato da nessuna parte. In casa c’è quel biglietto che mi attrae e mi respinge quasi fosse un magnete impazzito, esattamente come colei che l’ha scritto.
Sappi che ti ho pensato. Mi auguro di vederti presto...
Oltre l’intrinseca sorpresa del messaggio ci sono quelle frasi a rendermi ancora più ansioso. Che significato ha – detto da lei – ti ho pensato? Come può augurarsi di vedermi presto e soprattutto perché?
Che cos’altro può volere dato che non c’è rimasto molto da distruggere della mia malferma personalità?
Rientrando in casa mi assale il sentore del vino sparso intorno al divano così mi ricordo che pulire e mettere in ordine è una delle mie attività preferite quando sono nervoso. L’altra è correre ma di fare jogging alle undici di sera in pieno inverno non se ne parla.
C’è un altro particolare che mi inquieta e che, con un’ennesima domanda, metto a fuoco soltanto ora. Perché portarmi un biglietto e non inviarmi un sms, una mail o qualsiasi altra forma di comunicazione mediata?
Considerando che abitiamo nello stesso stabile – Piazza della Rovere 10, lei al quarto piano scala A, io due piani più su scala B – riuscire a non incontrarci in tutto questo tempo è stato un miracolo di casualità e pianificazione, quest’ultima almeno da parte mia.
In linea retta, a scavare un tunnel tra il mio ed il suo appartamento, non ci sono più di trenta metri.
Venire fino alla mia porta è stato di per sé un messaggio il cui esatto significato mi sfugge anche se intuisco che vuol essere importante non meno di ciò che ha scritto.
Riempio un altro bicchiere fino alla sua metà restando a guardare in controluce la tensione che si crea sulla superficie del liquido racchiuso tra le pareti di vetro.
Prendo una decisione e bevo un lungo sorso facendomene riscaldare e traendone una baldanza che un attimo fa non avevo.
Il biglietto è ancora sul divano e c’è dello spazio da riempire intorno alle sue frasi tondeggianti; mi serve una penna che fatico a trovare ed ho bisogno di un minimo di lucidità per non apparire a lei più ridicolo di quanto non mi senta io.
Ti ricordi di me? Ne sono davvero sorpreso!
Ho letto ciò che scrivi ma l'unica risposta che so darti è che ormai ho paura di dire qualunque cosa.
Anche perché, sono certo mi comprenderai, so bene a quanto poco servano le mie parole, comprese quelle che ti sto scrivendo proprio in questo momento!
Senza polemica, senza rancore e senza l'intento nascosto di provocare una tua reazione. Semplicemente è stata una lezione molto dolorosa; mettere nero su bianco serve a ricordamene!
Ho esagerato oppure è troppo poco? Le parole avevano nella mia testa un suono migliore di quanto non mi appaia mentre le rileggo; il sarcasmo non ha mai fatto parte mio repertorio e, comunque, non ho mai saputo esibirlo con lei.
Nel vino che resta in fondo al calice trovo l’incoraggiamento per riportare il biglietto al mittente ma, ne sono più che consapevole, so di commettere l’ennesimo sbaglio della mia vita.
[continua... forse]

martedì 14 ottobre 2008

Ti ricordi di me?

Il ripetuto abbaiare del cane mi fa capire che c’è qualcuno vicino la porta di casa.
Ma io non posseggo un cane e il suono in realtà proviene da uno stupido zerbino che mi hanno regalato per il compleanno e che di malavoglia ho dovuto posizionare sul pianerottolo per non offendere mia sorella.
Sopra vi è raffigurato un bulldog da cartone animato e c’è una scritta fintamente minacciosa che dovrebbe far sorridere gli ospiti in arrivo; ma il vero punto di forza della piccola stuoia in cocco è la presenza di un sensore che, attivato dal peso della persona, mette in azione il latrato del finto guardiano a quatto zampe.
Mentre raggiungo l’ingresso mi rendo conto che l’abbaio è terminato già da qualche secondo; la qual cosa significa che il visitatore deve essersi posizionato al di là del tappetino e probabilmente ora sta ridendo del padrone di casa.
Poi considero che il campanello non ha suonato e non ho sentito bussare; la cosa mi incuriosisce alquanto.
Guardo con circospezione dallo spioncino senza accendere la luce all’interno e non vedo nessuno; la porta dei miei dirimpettai è chiusa e del resto a quest’ora della sera non sono mai in giro.
Chiunque abbia calpestato il mio zerbino adesso non c’è più oppure non c’è mai stato ed il simpatico dispositivo elettronico cinese per fortuna si sta guastando.
Apro solo per avere la conferma diretta che non c’è nessuno e non sento neppure alcun rumore per le scale.
Pregustando il ritorno alla mia malinconica serata mi chiudo la porta alle spalle per riaprirla un attimo dopo perchè qualcosa di indefinito ha attirato la mia attenzione e voglio scoprire di cosa si tratta.
Quello che ora vedo spuntare da sotto il tappetino prima non c’era.
Al rientro, se ci fosse stato, mi sarei accorto di questo cartoncino bianco, chiuso con un pezzo di nastro adesivo, senza busta e privo di mittente che sto raccogliendo proprio in questo momento.
Normalmente non sono una persona curiosa e in vita mia quando lo sono stato gli eventi me ne hanno fatto subito pentire.
Però - rifletto mentre mi dirigo verso la cucina dove stavo stappando una bottiglia di Primitivo Shahrazad del 2005 – non ho niente di meglio da fare e soprattutto non riesco ad immaginare chi possa essere interessato ad interrompere il mio monotono isolamento.
Lascio il vino a respirare e recupero un calice di medie dimensioni abbastanza ampio da consentire un'adeguata ossigenazione e lo sviluppo degli aromi complessi e terziari; inoltre la forma del bicchiere – ripeto a mente come fosse una lezione – dovrà servire a stimolare principalmente le parti interne della bocca ed evitare il contatto astringente dei tannini con le gengive.
Frequentare un corso di enologia è stata la vera novità della mia vita da vari mesi ad oggi, cosicché è l’unica cosa di cui posso sentirmi vagamente fiero.
Respiro il profumo del vino nel bicchiere, brindo ad un ospite che non c’è e mentre ne lascio scorrere sul palato un breve sorso mi siedo sul divano e prendo l’anonimo biglietto.
Aprirlo e leggerlo è un attimo, morirci dentro anche!
Dopo la telefonata... forse avrei dovuto prevedere che non ci saremmo visti per un po’... Sappi che ti ho pensato.
Spero solo che tu stia meglio di quanto io non senta...
Mi auguro di vederti presto...
Ovunque tu sia in questo momento... mi auguro giunga a te il mio pensiero...
La grafia è inconfondibile e la firma, se ci fosse, sarebbe inutile.
Lo rileggo quasi sperando che quelle parole scompaiano come se fossero scritte con l’inchiostro simpatico; invece restano lì a ricordarmi che nascondersi a se stessi è un gioco inutile.
Ma soprattutto quelle frasi scritte in blu mi ricordano di te, che non ti ho dimenticata anzi – poiché scordarmi di te non potrei – mi rammentano quanto puoi far male.
Cerco di alzarmi perché non riesco più a stare fermo ma, nel far leva su un bracciolo, maldestramente faccio volare il bicchiere sul pavimento che ora ospita schegge di vetro e frammenti della mia serata affogati in vino barricato quindici mesi.
Pulirò dopo, ora ho bisogno di una sigaretta per pensare cosicchè esco sul piccolo terrazzo ingombro di piante secche ed attrezzi sportivi inutilizzati.
[continua... forse]

domenica 12 ottobre 2008

Bianco e nero

Scompongo i miei pensieri
e sola resti tu,
sospesa con i gesti e gli occhi grandi
sgranati su una foto
in bianco e nero.

Io sono quell'ombra
nascosta tra le altre,
quel nome che ti era familiare,
sono quel punto
perduto sullo sfondo
anzi di più,
son meno di un ricordo.

venerdì 10 ottobre 2008

Sta andando tutto bene - tre

Per quanto possa conoscere la città – non ci ho mai vissuto però l’ho frequentata spesso – non saprei ripetere il percorso del tassista e non so dire com’è che siamo arrivati e lui mi sta invitando a scendere. Più che nelle strade mi sono perso nei miei pensieri.
Il prezzo della corsa mi sembra perfino troppo basso così arrotondo alla decina superiore e il mio interlocutore capisce definitivamente che non devo essere molto lucido. Per di più scendendo dall’auto incespico nel montante della cintura di sicurezza anteriore e mi ritrovo quasi in ginocchio sul marciapiede.
Non so se ridere o imprecare ma scelgo la prima ipotesi quando vedo il numero civico dall’altra parte della strada. Sono arrivato davvero.
Mentre mi appresto a citofonare maledico le mia limitata spigliatezza perché so già che non mi riuscirà fingermi disinvolto. Inoltre dovrei mentire sulla ragione del mio viaggio – qualcosa del tipo “Che ci fai qui? Niente, avevo un impegno di lavoro e ti ho fatto una sorpresa” – ma le ci vorranno circa quindici secondi a smascherarmi.
L’ultima volta che le ho detto una bugia mi ha scoperto talmente in fretta che, ridendo, ha rinunciato ad arrabbiarsi e poi mi ha obbligato a pagare pegno. Opium di Saint Laurent, 75 ml, parfum non eau de toilette, non so se mi spiego!
Suono una, due volte, smetto di respirare e aspetto.
A rispondere è Danica, la ragazza serba con cui divide un appartamento troppo piccolo anche per una persona sola.
Sento di avere le funzioni cerebrali rallentate e sono costretto a ripetermi a mente ciò che mi sta dicendo tra lo stridio dell’altoparlante. No, non c’è. Si, aveva un impegno. Si, torna tra poco. Voglio salire?
No, grazie, aspetto giù. Magari faccio un giro”. Quest’ultima frase la pronuncio mentre con un poderoso sforzo di volontà ricorro al mio mantra personale e comincio a salmodiare ritmicamente aum-va-tutto-bene–aum.
Di tempo ne ho perso pure troppo, sotto ogni punto di vista, ed ora col tempo di un’attesa dovrò ancora confrontarmi.
Così compro un quotidiano che non leggerò e seduto in uno Starbucks lì vicino, per curiosità più che per desiderio, ordino un caffè americano che non finirò mai. Da dove sono seduto non riesco più a vedere il portone e la tensione fa sì che la pausa ristoro termini velocemente.
Stupiscila, consiglia uno slogan posto di traverso sulla fiancata di un autobus che mi passa davanti; la bellissima bionda fotografata effettivamente sembra stupita del brillante che adorna il suo anulare sinistro.
Stupiscila, mi ripeto molto più umilmente mentre mi avvio verso quel fioraio che so trovarsi dietro l’angolo.
Il tempo di scrivere due righe – da anni, per gioco, sempre le stesse – su un anonimo cartoncino ed un fascio dei suoi fiori preferiti è già pronto per esserle recapitato. So che il tizio alla cassa, dopo aver letto l’indirizzo, vorrebbe chiedermi perché non li porto via io ma con quello che costa la consegna a domicilio reputa più saggio farsi gli affari propri.
Torno davanti al palazzo e mi apposto dall’altra parte della strada ad aspettare ed a fare astruse congetture sulla strategia e sui vantaggi reali di una buona organizzazione. Mi viene in mente un assioma del famigerato capitano Malvasi durante la naja: piegarsi, adattarsi, raggiungere lo scopo.
Che poi è quello che sto facendo, o almeno ci sto provando. Nella testa, però, mi rimbomba ancora la voce del comandante di compagnia: non esiste provare, esiste solo riuscire.
Mi accorgo del garzone di bottega che sta uscendo dal portone a mani vuote. Anche lui mi vede e gli pare opportuno urlarmi sopra al traffico, a beneficio dell’intero rione, che su in casa non c’è nessuno e che i fiori li ha lasciati dietro la porta.
La coinquilina deve essere uscita e a me pare che la situazione vada alquanto complicandosi. Avrò diritto di pensare che forse, diciamo forse, non sta andando proprio tutto per il verso giusto?
Poi considero che ben altro potrebbe andare storto e mi rassegno a credere che il fantomatico bicchiere sia ancora mezzo pieno.
In questo modo trascorrono altri venti lunghissimi minuti e poi il tempo si ferma. Anche il traffico si ferma, anche i passanti, i rumori, gli odori, i pensieri si fermano.
Lei arriva dalla circonvallazione interna e riesce a trovare un parcheggio al primo tentativo. Scende trafelata dall’auto e si avvia a passo veloce verso casa; non si accorge di me, non si guarda neppure intorno anche perché sta parlando concitatamente al telefono. Sembra aver fretta.
Resto a guardare quei suoi trenta passi sul marciapiede e penso solo a quanto è bella. Poi, in rapida successione, rimugino su una moltitudine di altre cose ma su tutte prevale quel primo pensiero. Per me è bellissima.
Ed ora non mi resta che tirare il fiato ancora un po’. Tra un momento troverà i fiori sull’uscio, leggerà il biglietto e saprà che sono qui ad aspettarla; magari l’amica le ha lasciato un messaggio, magari si affaccia subito e mi vede, magari mi telefona, magari mi corre incontro, mi guarda, capisce tutto e ridiamo insieme di tutto il tempo perso… magari…
Magari non accade niente di tutto quello che ho pensato e quasi un quarto d’ora dopo me ne devo pur fare una ragione.
Non riesco a capire cosa sta succedendo mentre passo in rassegna tutta una serie di ipotesi drammatiche, dall’ignobile furto delle rose fino ad un’urgenza di qualche tipo, passando per una sua momentanea amnesia.
Ma lei sta uscendo dal portone proprio in questo momento. Si è cambiata ed ora sfoggia un abito aderente D&G, sandali neri e borsa Braccialini; abbiamo comprato insieme parte di ciò che indossa e probabilmente c’ero io anche quando ha provato la biancheria intima. Se prima era bella adesso sta da dio.
Sembra allegra, sorride. Scruta nella mia direzione e finalmente riesco a fare un passo avanti anch’io. Sorride ancora mentre mi vede ma l’espressione è strana, come se io non fossi lì davanti a lei, come se non stesse guardando me ma attraverso me!
Mi accorgo che ha in mano il biglietto dei fiori.

Tutto è accaduto molto velocemente ma io non ne ho memoria, come se non ne avessi avuto una percezione diretta, come se me l’avessero riferito. Come quando vieni investito e qualcuno dopo ti racconta cos’è successo.
C’è un auto, una Bmw nera, che forse era in doppia fila già da qualche minuto.
C’è un uomo, mi pare sia in divisa, che si piega in avanti e le apre lo sportello dall’interno.
C’è lei che in scioltezza sale a bordo e nel mentre il vestito svela le sue gambe lunghe prima che si sistemi la borsa in grembo.
C’è che forse si sono baciati ma non so, non potrei giurarci; forse lui ha baciato lei, non so, ma a ripensarci non credo cambi molto.
Rivedo da ore la stessa sequenza di immagini mentre perdo l’ennesima chiamata per un volo che potrebbe riportarmi a casa.
Sono seduto davanti alla vetrata panoramica e mi sento talmente vuoto da non avvertire alcun dolore.
Non so neppure com’è che sono arrivato in aeroporto.
Ricordo solo che la radio del taxi passava quella canzone di qualche anno fa… l’aria sulla quarta corda di Bach mixata da quel gruppo pop… everything’s gonna be alright

mercoledì 8 ottobre 2008

Sta andando tutto bene - due

I successivi novanta minuti – tanti ne sono occorsi perché io potessi trovarmi in fila per prendere un taxi – mi sembra siano volati. Nel senso letterale dell’espressione anche se ne viene fuori uno stupido gioco di parole.
Ho tollerato sovrappensiero i controlli di sicurezza, il sedile angusto in coda all’MD80 e un po’ di turbolenza da qualche parte sopra il Tirreno; tra decollo, vuoti d’aria e corridoio di discesa mi sembra di non aver mai tolto la cintura di sicurezza.
Ho persino aiutato la nonna turchina che mi precedeva nella fila e che non ce l’avrebbe mai fatta a trasportare quell’armadio a quattro ante che aveva deciso di usare come valigia.
Vado a trovare i miei nipoti in Argentina” ha tenuto a precisare a me e ad una assonnata impiegata che cercava di farle inutilmente comprendere la necessità di pagare un supplemento per quasi sessanta chili di bagaglio non previsto.
Io non ho neppure uno zaino e ciò contribuisce a rendere piacevole questo viaggio inconsueto; mi trovo lontano da dove normalmente sarei in un giorno qualunque e non c’è nessuno che sappia dove sono. Non ancora almeno.
Però ho quasi due ore di ritardo sulla mia personale tabella di marcia e, mentre l’auto bianca si accosta al marciapiede, comincio ad avvertire una certa trepidazione che mi obbliga a mormorare, fiaccamente, che va ancora tutto bene.
Mi siedo, guardo la faccia fintamente cordiale dell’autista e – mentre mi rendo conto che sono le prime parole che pronuncio da ieri sera – indico la mia destinazione e poi aggiungo, tanto per essere sicuri, anche il quartiere.
Lui ingrana la marcia ed esce dalla corsia di stazionamento immettendosi nell’apparentemente ingovernabile caos a quattro ruote. Noto che lascia spento il navigatore e la cosa, chissà perché, mi piace; evidentemente anche lui, come me, sa dove andare ma lui, più di me, sa cosa lo aspetta all’arrivo mentre io non riesco proprio ad immaginarlo.
Ora che sono così vicino mi sembra di aver fatto una sciocchezza e per un lungo momento mi sento fuori posto. Un cretino fuori posto, per la precisione.
Vago con i pensieri al di fuori dai finestrini mentre il taxi entra nel raccordo autostradale e si dirige verso il mio futuro. Che poi è un tutt’uno col presente ed il passato.
Non ricordo più da quanto la conosco. È un modo di dire ma realmente devo pensarci un attimo prima di assegnare un numero agli anni trascorsi; nove, forse dieci, dipende anche da quando comincio a fare il conto.
Dapprima cordialmente indifferenti l’uno all’altro, siamo diventati amici per caso e poi nemici per sbaglio, per un equivoco, per uno stupido malinteso. E dopo di nuovo amici – questa volta per scelta – con la voglia di dividersi il lavoro e il tempo libero, le giornate buone così come i momenti duri.
Anni interi sono passati in questo modo, a litigare per finta per poi far pace sul serio seduti davanti a qualche birra e troppe sigarette, discutendo su qualsiasi cosa fino a non poterne più; ivi comprese le reciproche liasons con altre persone a cui - chissà per quale ragione - mancava sempre qualcosa per essere quelli giusti.
Ed infine, circa un anno fa, il nostro – il mio - piccolo orizzonte è cambiato nuovamente. Lei con un nuovo lavoro e soprattutto con una voglia irrefrenabile di trasferirsi, io che ho finito col dire qualche parola sbagliata per via della mia atavica paura di ogni cambiamento.
La nostra – la mia - vita quotidiana si è trasformata all’improvviso.
In tutti questi mesi ci siamo visti abbastanza spesso ed altrettante volte abbiamo finito col ritrovarci nelle nostre lunghe ed emozionanti conversazioni velate, forse, da un certo imbarazzo.
All’inizio mi sembrò essere quel comprensibile disagio di chi si ritrova dopo una forzata lontananza poi, quando l’alba ci ha trovato più volte vicini e silenziosi, ho capito che le troppe cose fino ad allora taciute esigevano una voce. Il silenzio tutto ad un tratto ha cominciato a fare molto rumore.
Da allora credo di aver formulato centinaia di domande e spero che alcune avranno presto una risposta. La luce dei sentimenti oppure il buio della ragione? La preoccupazione di perdersi o la paura di trovarsi davvero? Un amore da negare oppure una passione da vivere?
La frenata decisa della monovolume cancella i miei flashback e mi ritrovo in una desolante realtà. Il traffico è bloccato per chissà quale ragione ed il mio ritardo su un appuntamento che non c’è sta aumentando in maniera esponenziale.
Se potessi scenderei qui e mi incamminerei nella corsia di emergenza; il tassista, però, dev’essere uno d’esperienza perché mi osserva dal retrovisore e cerca di prevenire il panico con un rassicurante “È tutto ok, dottò. Mò se sblocca”.
[continua... forse]

lunedì 6 ottobre 2008

Sta andando tutto bene

La domanda, per quanto inutile e retorica, sorge spontanea non appena le porte a vetri si aprono automaticamente e mi investe uno sbuffo di aria fredda.
Riuscirò mai ad essere il primo della fila ad un banco check-in?
Sono le cinque e mezzo del mattino, pensavo di essere in anticipo ma davanti a me ci sono disordinatamente almeno venti persone.
È poco più di una curiosità la mia ma davvero, per qualsiasi volo io abbia preso, non mi è mai capitato di ricevere la prima carta d’imbarco e scegliere comodamente il primo dei posti disponibili.
Sono sorpreso di trovare così tanta gente a quest’ora perché in fondo l’estate è finita e si è appena concluso anche un noioso weekend. È una fresca giornata di un caldo settembre e quella stessa aria condizionata che tra qualche ora sarà indispensabile adesso mi infastidisce.
Per ora sono l’ultimo della coda e mi posiziono dietro un’anziana signora con i capelli riflessi d’azzurro ed un’assurda valigia alta molto più di lei e apparentemente pesante qualche quintale.
La signora non si muove di un passo e lo stesso fanno quelli che la precedono tranne due bambini che giocano a rincorrersi, troppo piccoli per essere composti e troppo svegli per la mia tolleranza mattutina.
Il personale non ha ancora iniziato le operazioni preliminari e, mentre me ne chiedo la ragione, mi accorgo del cartello scritto a mano posizionato sul bancone: “Problemi tecnici, ritardo partenza”.
Il monitor che ho davanti agli occhi, invece, lampeggia in corrispondenza del mio volo e chiama addirittura il boarding now.
Pennarello batte elettronica uno a zero.
Va tutto bene, penso, mentre ricaccio indietro una punta di irritazione, non sarà certo questo contrattempo a rovinarmi la giornata.
Del resto neppure una prolungata e prevedibile insonnia è riuscita a mettermi di cattivo umore.
Comodamente steso in poltrona, al buio di una veranda sui cui vetri riflettevano le luci notturne della costa, ho metodicamente rivisto tutti i miei programmi del giorno seguente, come uno stratega avrebbe fatto con i propri piani di guerra.
Aeroporto, parcheggio, partenza, arrivo, taxi, sorpresa, io dico, lei dice… e di nuovo un’altra volta, con qualche variazione sul tema e piccoli timori da scacciare ogni volta per quell’imponderabile che può sempre accadere a dispetto di qualsiasi organizzazione.
La pianificazione, ad essere sinceri, si presenta inutilmente dettagliata all’inizio ma poi nel corso della giornata si frantuma contro piccoli - imprevedibili ma fondamentali – dettagli su cui io non alcun controllo.
Per tacere della paura principale, quella relativa alla sua reazione: stupore, allegria, fastidio o cos’altro? Anche ora, al solo ripensarci, mi sembra venga nuovamente meno la determinazione di partire.
Invece resto saldo nei miei propositi e torno a ripetermi - amara ed ineluttabile verità – che non ho niente da perdere e, al contrario, forse finirò col ritrovare un po’ di rispetto per me stesso.
Forse saprò dire alla donna che amo ciò che provo e forse – ma questo è il primo pieno della lotteria – non glielo dirò invano.
Intanto la fila ha cominciato a muoversi verso un altro sportello ed io, dopo brevissima riflessione sul concetto di efficienza applicato dalla nostra compagnia di bandiera, riesco a relegare da qualche parte le mie ansie ed a ripetermi che sta andando tutto bene.
[continua... forse]

martedì 23 settembre 2008

Ritagli di una vita

Sono innamorata.
Mi guardi e mentre lo dici sorridi, seduta dall’altro lato di un tavolino in alluminio serigrafato, in un bar con poche pretese e buona musica, mentre i caffè si freddano e le parole incalzano.
Non è un sorriso qualsiasi ma contentezza vera.
Come il ritrovare una cosa che ti eri rassegnato ad aver perso, come il conoscere la risposta ma – meglio ancora – presagire la domanda, come arrivare alla fine della corsa e non sentirne la fatica senza per questo apparire odioso agli avversari.
Sono innamorata.
Le labbra sono di nuovo unite come se non avessi parlato ma l’impronta dell’allegria è rimasta loro stampata sopra. E poi ridi anche con gli occhi, con le fossette sulle guance, ridono perfino i tuoi capelli che ora stai tormentando con quelle dita da pianista.
L’inconfessato desiderio di ogni uomo è trovarsi ora al posto mio e sostenere uno sguardo come il tuo, pieno di promesse di felicità.
A patto di essere il destinatario di tanto sentimento.
Sento che stai per dirlo un’altra volta, faccio per anticiparti alzando una mano in segno di resa ma tu previeni me e peschi l’asso – di cuori, ovviamente – in questa immaginaria mano di poker.
Non mi sentivo così dai tuoi tempi.
Non mi facevano sentire così dai tuoi tempi…
Punto, scala reale massima. Il banco vince! Vince e sorride.
La playlist che devi aver concordato col destino tesse insieme i miei pensieri ed una voce che entrambi ricordiamo bene ora canta per noi, nonostante tutto ancora per noi…
Non so immaginare l’espressione del mio viso che tu, comunque, puoi sempre leggere prima e meglio di me. Quante altre volte, occhi negli occhi, ci siamo fatti bastare parole come queste per scaldare la nebbia di un inverno?
Non so capire se c’è una risposta adeguata ma, se anche fosse così, sono sicuro che non è importante.
Quante fotografie di noi dovranno scorrere in quest’attimo per fare da contrappeso a ciò che hai detto?
Quanti ritagli di una vita si devono collezionare per completare la raccolta e poi potersi dire, serenamente, “questa è fatta”?
La tua felicità è contagiosa e commovente.
Mi emoziona, una volta tanto, non essere costretti a rincorrere il passato per sentirsi vicini, ora solo complici innocenti nel tempo che sarà.
Ti guardo ed hai quell’aria furba di quello che sa già come andrà a finire il film e si gode i particolari sullo sfondo, quelli di cui tutti gli altri giù in platea non si accorgeranno mai.
Resisterti è impossibile e rido anch’io.
Chissà perché mi viene in mente quell’unica lettera che seppi scriverti e che non mi rendesti mai. Chissà se ora mi accontenterai.
Sono innamorata.
Non lo ripeti più ma ormai lo so; senza quasi aprire bocca ci siamo raccontati anni di silenzio e, per ciò che è stato, tanto può bastare.
Buona vita anche a te allora.
Mentre lo penso mi sento come un bacioperugina e rido della mia stupidità; mentre lo dico, invece, mi sembra quasi di dovertelo e anch’io mi sento in pace con il mondo.

She seems to have an invisible touch
She reaches in and grabs right hold of your heart

giovedì 18 settembre 2008

La notte del vulcano - due

Alcuni locali mi passano accanto di gran fretta, diretti verso la sommità di una piccola altura posta sul lato ovest del parco. Scherzano a gran voce tra loro e riesco a decifrare solo una parte di quello che dicono ma pare che l’eruzione sia già cominciata. Istintivamente guardo in alto, verso l’ipotetica direzione della montagna, ma non vedo nulla anche perché la pioggia mi acceca.
Seguo l’istinto e mi sposto veloce, compiacendomi della momentanea solitudine; del resto nessuno mi rivolge la parola e comunque non riuscirei a spiegare in alcun modo le sensazioni che sto provando.
Salgo alcuni scalini e mi incammino per un ennesimo percorso. La foschia e la natura rigogliosa rendono piacevole ogni passo.
C’è una leggera salita che mi porta ad una piscina immensa che inizia davanti ai miei piedi e di cui in lontananza non scorgo la fine. Sui lati ci sono alcune cascate che immagino essere di acqua calda; al centro ci sono vasche più piccole con panchine circolari in pietra.
In giro ci sono gruppi di persone e coppie ma la piscina è talmente grande che riesco soltanto a distinguerne le sagome.
Entro e scopro che anche lì l’acqua è a quaranta gradi.
Mi immergo con cautela e cerco di impormi un minimo di relax mentre nuoto lentamente verso il centro del piccolo lago. Mi prendo qualche bracciata di respiro fintanto che arrivo ad una delle tinozze centrali che, con un brivido, scopro essere colma di acqua freddissima, quasi gelida.
Passare dal molto caldo al troppo freddo – qui la temperatura non deve essere superiore ai venti gradi - da una sensazione straniante. Resto immerso qualche minuto e poi, insieme ad altri anonimi bagnanti, mi sposto di nuovo nella vasca calda.
Il benessere è immediato e spero di distendermi sul serio. Torno nell’acqua fredda un’ultima volta e, per via dei miei pensieri oppure a causa del brusco cambio di temperatura, mi accorgo di avere un’erezione.
Intanto il temporale continua e crea una benefica cortina di riservatezza; adesso piove così fitto che diventa difficile vedere ed essere visti.
Decido di esplorare la piscina calda e mi spingo verso il perimetro esterno godendo del calore che mi circonda. Alcune piante quasi toccano l’acqua e creano ulteriori angoli nascosti oltre quelli che sono stati pensati ad arte da chi ha progettato la vasca.
Mi siedo sotto una piccola cascata. Da qui, seppure in lontananza, posso vedere ciò che accade sul vulcano.
La cima – o almeno quella che dovrebbe essere tale – è contornata da un chiarore che debolmente spicca nel buio del cielo plumbeo; la montagna si è svegliata davvero e ad intervalli irregolari emette sbuffi di fumo e brevi colate di lava. Si sta formando un denso torrente incandescente che sembra dirigersi verso un gruppo di alberi.
Ogni tanto una roccia ardente rotola velocemente verso valle per poi urtare un altro masso e frantumarsi tra innumerevoli scintille oppure spegnersi come una torcia esausta.
È uno spettacolo affascinante che non riesce a sollevarmi lo spirito, a portare via un’angoscia indefinita.
All’improvviso capisco cosa c‘è che non va, cos’è che mi manca. Comprendo il motivo di tutta la mia inquietudine.
Finalmente capisco che manchi tu.
In questo quadro dipinto con tutte le possibili tonalità del verde, schizzato col rosso e nero di una montagna in fiamme, bagnato da una pioggia fitta manchi solo tu.
Con questa consapevolezza il dolore per la tua assenza diventa quasi fisico e mi riesce difficile persino respirare.
Manca quel tuo sguardo sottilmente indagatore, manca il tuo sorriso, mancano la tue gambe flessuose che immagino nuotare in questa vasca, manca quel tuo costume nuovo che non ho mai visto e che ancora fantastico di toglierti.
Manca tutto il tuo essere così viva.
Il mio stesso desiderio mi ferisce mentre immagino la tua bocca e le tue mani, mentre sogno tutti i baci e le carezze, tutto ciò a cui pensare ora non dovrei.
Le grida della gente mi riportano al presente e non vorrei.
Mi sento solo e rifletto sul fatto che sei scomparsa da settimane, hai ignorato le mie chiamate e i miei messaggi, non hai risposto ad alcuna mail. Adesso ci separano chissà quanti fusi orari ed io non so fare altro che desiderarti con un’intensità pari all’angoscia che ne ho in cambio.
Vorrei scriverti qualcosa proprio in questo momento ma il pensiero che non risponderesti frena ogni slancio; sto già troppo male così per confrontarmi ancora con la tua indifferenza.
Eppure mi manchi insopportabilmente ed ora riesco a vedere anche il tuo volto nella nebbia, disegnato da una pioggia che nel frattempo si è fatta più sottile.
Il tuo posto dovrebbe essere qui, in questo emisfero, accanto a me.
Il fiume rosso sul vulcano ha ormai raggiunto la piccola radura e il magma sta incendiando gli alberi come fossero cerini, ricoprendone i resti dopo pochi attimi.
Allo stesso modo brucio anch’io mentre non so fare a meno di dar vita ai miei pensieri e domandarmi - stupidamente a voce alta - dove sei.

lunedì 15 settembre 2008

La notte del vulcano

Sono le sei del pomeriggio ed è già buio, sia per l’incombente notte tropicale sia per un cielo nuvoloso carico di pioggia.
Se alzo gli occhi verso un orizzonte immaginario riesco a distinguere soltanto l’ombra dell’Arenal che si staglia maestoso su di me.
Gli abitanti del luogo dicono che questa notte, sul cratere principale, ci sarà un’eruzione; sono tutti entusiasti ma a me sembra solo un pretesto per comperare lattine di birra in confezioni da sei e fare festa. Pura vida, in fondo è questo lo slogan nazionale.
In ogni caso la montagna appare davvero imponente ed io del resto non ho mai assistito ad uno spettacolo simile, se non guardando alcune immagini in televisione; mentre formulo questi pensieri mi rendo conto che la lunga fila di auto che ha intasato la strada è diretta proprio lì. Turisti e locali che vogliono assicurarsi la prima visione.
L’ingresso delle Terme Baldi, proprio alle pendici del vulcano, a prima vista è un luna park rumoroso e troppo colorato, buono per attirare l’ennesimo gringos di passaggio, con il portafoglio sempre troppo aperto e gonfio di dollari pregiati.
La curiosità prevale sulla stanchezza e mi accosto alla reception insieme a molte altre persone, tutte troppo felici per il mio umore. Pago e consegno un documento, in cambio ricevo una piccola chiave e le indicazioni per raggiungere gli spogliatoi.
All’interno l’atmosfera migliora perché diventa più rarefatta.
Dal viottolo che sto percorrendo intravedo alcune vasche ricolme di acqua avvolte in una nebbia impalpabile; alcune sono piccole e sembrano affollate, in altre c’è meno gente forse perché, immagino, l’acqua è più calda.
Il giardino intorno è molto più esteso di ciò che immaginavo tanto che non riesco a scorgerne i confini; in realtà si tratta di un vero e proprio parco tropicale in cui la flora è la padrona di casa e la fauna, me compreso, mi sembra abbastanza ridicola.
Intorno a me centinaia di persone in costume da bagno si spostano in continuazione da una piscina all’altra, alla ricerca di nuovo benessere o semplicemente per prolungare il divertimento.
Adesso sono ansioso di cambiarmi perché voglio esplorare tutto quello che mi circonda; mi infilo velocemente il costume, chiudo a chiave l’armadietto assegnatomi ed esco nuovamente all’aria aperta.
In questo attimo preciso, senza il preavviso di lampi o tuoni, inizia una pioggia torrenziale con gocce grosse come perle australiane; cerco un riparo provvisorio ma l’acquazzone certo non smetterà a breve.
Mi rendo conto che non ha alcun senso preoccuparmi della pioggia e inoltre sono troppo impaziente di guardarmi intorno; mi incammino nei vialetti illuminati da piccoli lampioni.
Dopo qualche secondo sono completamente bagnato ma non mi importa. Mi accorgo di essere preda di una strana frenesia a cui ancora non so dare una spiegazione né un nome.
Nella prima, piccola, vasca che mi si para davanti ci sono soltanto due ragazze; sul cartello all’ingresso – in inglese ed in spagnolo – c’è scritto che si tratta di acqua fredda. Mi avvicino ed entro nella piscina che in realtà è soltanto tiepida.
La sensazione è piacevole e sicuramente meriterebbe una permanenza maggiore ma in lontananza vedo avvicinarsi un gruppo chiassoso ed io invece ho voglia di stare solo; mi accorgo che la curiosità si sta trasformando in una certa inquietudine.
Faccio per uscire dalla piscina e le ragazze, probabilmente inglesi, si scambiano uno sguardo d’intesa; soltanto quando sono già in piedi, però, mi rendo conto che sono molto vicine tra loro e quella con i capelli più lunghi sta accarezzando l’altra sotto la superficie dell’acqua.
La pioggia intanto cade sempre più intensamente.
Mi sposto verso un’altra vasca piena fino all’altezza di cinquanta centimetri; è un po’ più grande della precedente e ci sono alcuni lettini di pietra e ceramica ancorati al fondo. La temperatura indicata dai cartelli è di quaranta gradi.
L’acqua è decisamente calda e mi ci vuole qualche secondo per abituarmi. Soltanto dopo alcuni minuti riesco a immergermi e nuotare fino ad un lettino. Mi stendo faccia in su e la pioggia colpisce inevitabilmente il viso e quelle parti del corpo che non sono sommerse. Acqua calda e pioggia fresca che si fondono mentre tutt’intorno si alza un leggero vapore.
L’esperienza diventa sempre più strana e insolita.
Accanto c’è un’altra vasca da cui si solleva una nebbia decisamente più fitta; anche lì ci sono lettini di pietra ma è stranamente disabitata.
Mi avvicino cautamente ed immergo un piede solo per un paio di secondi perché più a lungo non mi pare possibile; l’acqua è calda oltre ogni limite e così comprendo perché non c’è nessuno. Mentre mi allontano leggo che la temperatura è di cinquanta gradi.
Lascio alcune coppie stese sui lettini e mi sposto alla ricerca di non so cosa, verso nuovi sentieri ed altre attrazioni. I cartelli indicatori mi informano che più avanti troverò altre piscine, ognuna con la sua specificità derivante dalle caratteristiche dell’acqua sulfurea.
[continua... forse]

mercoledì 10 settembre 2008

“Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson

Analisi dei particolari (come farebbe lui, il protagonista).
Che le ultime pagine di un corposo romanzo poliziesco – quasi 700 pagine – parlino d’amore e non dello stereotipo del maggiordomo assassino vi sembra un dettaglio trascurabile?
A me pare l’ennesimo divertissement di un autore che se lo può permettere in quanto sa di aver costruito una solida trama, di aver chiarito (quasi) tutto quello che c’era da chiarire e, saggiamente, di non aver mutato tutti gli interrogativi in punti esclamativi.
Che sia ogni lettore a cercare la propria personale risposta a questioni di carattere morale o di spessore giudiziario o di rilevanza economico-sociale, se proprio ci tiene.
Psicopatologia della società occidentale (in variante nordica) applicata ai disastri dell’economia globale e buono omaggio per una saga familiare e le sue shakespeariane nefandezze?
Forse si ma è possibile anche godersi soltanto gli equilibrismi investigativi del giornalista economico Mikael Blomkvist e le ossessioni freak della signorina Salander.
A proposito di quest'ultima il vero leitmotiv del romanzo sono proprio quei “promemoria” posti all’inizio di ogni capitolo e contenenti i dati percentuali delle violenze sulle donne nel civilissimo regno di Svezia!
Se la storia vi è piaciuta (o se vi piacerà) divertitevi ad annotare su Google Earth i tanti luoghi citati nel libro; sarà un altro modo di viaggiare nello scritto in attesa di vedere il tutto trasposto sul grande schermo.
Analisi delle conseguenze (come farebbe lei, la protagonista).
Un buon romanzo, ben congegnato e ben scritto, con un’introspezione piacevole dei personaggi e qualche pagina di troppo. Il tutto in attesa che la trilogia si compia (“La ragazza che giocava con il fuoco” è già in libreria ma per l’ultimo volume - “Castles in the sky”, titolo inglese non confermato – si dovrà attendere ancora un po’).
Penso ad alcune recensioni che ho letto e mi chiedo perché chiedere (inutilmente) di più alla letteratura di evasione.
Tanto più che – anche questo va ascritto a merito dell’autore - la prossima volta che incontrerò un inviato de Il Sole 24 Ore lo guarderò con occhi diversi!

giovedì 4 settembre 2008

All'amico che non ebbi

Chissà che cosa prova
quel triste uomo
che solo va a morire
in una notte sconosciuta.
Chissà se vede
avvicinarsi la signora
oppure se la benda
lo copre all'improvviso.
Chissà il suo ultimo pensiero.

Un fucile non può
sparare al destino.

[In memoria del Tenente Giulio Ruzzi, 66° Reggimento fanteria "TRIESTE", morto in Somalia il 6 febbraio 1994]

giovedì 7 agosto 2008

Lettere dal silenzio - cinque

Il ronzio del telefono la richiamò alla realtà e scoprì di aver ricevuto tre sms senza essersi accorta per tempo dei primi. Marco alle undici anzi alle ventitrèzerozero, come avrebbe sottolineato lui, che le rinfacciava giustamente un altro brutto appuntamento; Marco meno di un’ora dopo le inviava una gelida buonanotte con troppi punti di sospensione perché l’augurio potesse essere veritiero.
Adesso si era aggiunto il messaggio di un altro tizio che da qualche tempo la annoiava; un tale verso cui lei aveva commesso il grande errore di farlo sentire diverso da quella nullità che era!
Nessuno meritava una risposta.
Tornò al tavolo e provò ancora una volta a dare un senso a quelle lettere – quelle del pennarello rosso – scritte sul retro delle buste.
Le dispose ordinatamente separando vocali e consonanti ma neppure questo l’aiutò a comprendere qualcosa di più. Tra quelle ancora chiuse c’erano quattro lettere O e altre due lettere A; alcune di queste sembravano contenere molte pagine ed erano quelle che più la attraevano e spaventavano al tempo stesso.
Ormai l’inquietudine era quasi del tutto scomparsa per lasciare spazio se non ad una nuova coscienza almeno all’intenzione di fare chiarezza. Non sarebbe andata via senza prima aver saputo tutto ciò che poteva, senza prima aver compreso tutto quello che fino ad allora aveva scelto di ignorare.
Scelse una lettera L, tirò i lembi senza troppa cura e scorse con emozione la grafia minuta ed ordinata di Alessandro su varie pagine piegate tra loro; alcuni fogli caddero sul pavimento e nel raccoglierli non potè fare a meno di leggere e restare ancora una volta senza fiato.
“Ma come è possibile che tu non te ne accorga? Non puoi non sapere, maledizione, non puoi non vedere quanto io sia innamorato di te. Sono innamorato di te Claudia. Sono innamorato di te da così tanto tempo che neppure lo ricordo. Io ti amo. Ti amo con quella ottusa determinazione che può avere solo chi si è ormai abituato a stare nell’ombra. Nonostante il tuo evidente disinteresse, forse ti amo proprio perché resto sempre un passo dietro te, dietro l’ultima delle quinte di un palcoscenico su cui tu vuoi altri protagonisti o, semplicemente, non vuoi me.
Ti amo perché da te non voglio nulla e al tempo stesso vorrei avere tutto. Ti amo perché non mi rassegno ancora al tuo rifiuto di ogni intimità, emotiva o mentale che sia.
Ho cercato di dirtelo, ho provato a fartelo capire ma, forse per mia incapacità, sicuramente per tua indifferenza, non ho saputo interessarti più di così. Ora non ho più voglia di avvicinarmi a te perché il tuo scherno fa più male persino dei tuoi no; perché il sarcasmo ormai è diventato il tuo rimedio per ogni caso della vita ed io proprio non riesco ad accettarlo.
Non ti capisco, spesso non ti capisco e per questo mi danno inutilmente la vita perché comprenderti e ciò che vorrei di più”.
Alessandro innamorato!
Leggere quelle parole, dure ed appassionate, era un po’ come essere schiaffeggiata; sentiva il viso bruciarle e la gola arsa di una rabbia stanca e inutile. Peggio ancora, quelle parole la facevano sentire impreparata, indifesa.
Aveva perso il controllo della situazione. In quella stanza semi buia, in quel momento di estrema solitudine, finalmente, non controllava più gli eventi e questo pensiero, nel mentre la terrorizzava, la fece sentire anche più leggera.
Alessandro che dice di amarmi, Alessandro rifiutato!
Entrambi avevano sempre condotto vite separate, ciascuno con le proprie storie più o meno importanti, ciascuno rivolto verso interessi e persone diverse. C’erano state, è vero, alcune occasioni in cui avevano smesso di comportarsi solo come due colleghi, momenti in cui il loro legame si era rinforzato anche al di fuori del lavoro.
Lei, però, inebriata dal sentirsi cacciatrice, aveva sempre sorvolato sui gesti piuttosto che sulle parole dette e su quelle sapientemente taciute.
Accese la sua penultima sigaretta e guardo l’orologio; notte fonda ormai. Riprese a leggere quei fogli pesanti come marmo.
“Ricordi la sera dopo l’inaugurazione del palazzetto? Pensavo di piacerti, sapevo, sentivo di non esserti indifferente ma tu non dicesti nulla, né allora né dopo. Né mai più. Niente, non una parola neppure il giorno appresso.
Ma davvero hai creduto fossimo lì per caso? Che qualche bicchiere in più potesse essere una valida giustificazione per un bacio o per velare una verità abbastanza eclatante?
Non rimpiango nulla di quello che ho fatto per te, dei gesti che conosci e di quelli che non saprai mai. Avrei voluto solo che tu te ne accorgessi, soltanto un po’ di considerazione, di affetto...".
Si sorprese a ricordare tutte le volte che realmente lei si era comportata così, per quieto vivere piuttosto che per un malinteso senso di indipendenza. Una frase scherzosa sulla porta dell’ufficio, gli occhiali da sole adoperati come un paraocchi ed un arrivederci più o meno sbrigativo.
Quando avevano sbagliato la prima volta e quando l’ultima? Quando il vivere quotidiano aveva oscurato i sensi e i sentimenti come un tramonto troppo frettoloso?
“Non è facile convivere col desiderio di vederti l’indomani e, al tempo stesso, con la consapevolezza che anche quel giorno vivrà della tua allegra noncuranza. Mi sarei fatto bastare persino un rifiuto, chiaro ed indiscutibile nella sua definitività, invece che l’ennesimo sorriso un po’ tirato, una scrollata di spalle ed una battuta scherzosa.
Ho provato ad estraniarmi ed ho provato ad allontanarti ma già nel tentativo era insito il fallimento e, tutto sommato, va bene così. La mia vita è più bella se tu ci sei, per quello che ci sei, per quel poco che vuoi dare di te stessa.
E questa potrebbe anche essere la mia considerazione finale. Quello che non è accaduto non è accaduto. Quello che non hai detto non sentivi di dirmelo. Quello che non hai fatto non hai voluto fare. Se non mi ami allora non mi ami.
A questa verità anche il più stupido degli innamorati deve arrivare, magari attraverso la strada più lunga e tortuosa, proprio come penso di esserci arrivato io.
Ché peggio sarebbe stato – ed a volte purtroppo mi arrovello ancora in questi pensieri – se tu avessi annegato qualunque sentimento in un mare di silenzi e di omissioni, in nome della tua orgogliosa indipendenza”.
Sentì una lacrima affilata come una lama segnarle il viso; serrò i pugni intorno ai fogli e la ignorò.
“Quanto ho desiderato la tua complicità, quanto avrei voluto che ti lasciassi andare, una volta, una volta soltanto. Per convincermi di non aver immaginato tutto, per sentire davvero i tuoi pensieri e accarezzarti l’anima.
Non posso sapere se ci sarei riuscito ma so che ci avrei provato davvero e forse, probabilmente, le nostre vite avrebbero seguito altri percorsi”.
Il pianto vero, quella disperazione liberatoria di cui sentiva il bisogno, ancora non c’era ma sapeva che non avrebbe tardato. Girò l’ultima pagina e lesse l’ultima frase.
“Perché, a dispetto della tua sprezzante autosufficienza, amarti mi arricchisce e forse mi rende una persona migliore”.
Punto a capo. Punto e basta.
La stanza era satura di fumo e di fogli sparsi.
I suoi pensieri rincorrevano le parole solo apparentemente immobili sulla carta senza riuscire a raggiungerle, ad impadronirsene del tutto.
Le quattro del mattino ed aveva letto quasi tutto ciò che lui le aveva lasciato.
Parte, si trasferisce. Così era cominciata quella lunga notte ed ancora non sapeva come e quando sarebbe terminata.
Alessandro trasloca la propria vita ed Alessandro che non era mai stato tanto vicino come in quel momento.
Questa per lei era la novità più sconcertante anche se un’indicibile tristezza scosse i suoi singhiozzi sopiti.
In bocca le rimase, acre, il sapore di tutto il tempo perso.
Tirò su col naso e strappò, testarda, la lettera E segnata sull’ultima busta…